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Papà caro,
Sette anni fa non mi mandasti una lettera come quella che scrive oggi su Repubblica il Direttore Celli a suo figlio. Eri emozionato il giorno della mia laurea e vedevo che non riuscivi a capire come quel tuo figlio fosse potuto arrivare dove tu non avresti immaginato mai. Non c’era amarezza nei tuoi occhi. Smarrimento sì, però, perché arrivati a quel punto non avevi più consigli da darmi.
Intuivi che l’Italia si stesse addormentando, sospettavi che si stesse fermando, ipnotizzata da un vociare confuso di politicanti in doppiopetto e un grande fratello che già arrivava alla sua quarta edizione. Non sapevi, però, cosa avrei potuto trovare altrove. Sentivi che quello che stava per succedere ci avrebbe allontanato, ma non sapevi di cosa si sarebbe trattato. Non lo conoscevi e quindi non trovavi ragioni capaci di spiegare quel sentimento.
Mi sentivi parlare di voglia di giustizia, di risultati meritati, di amici che erano diventati per me una nuova famiglia, di amici sodali che come me credevano nel diritto ai propri diritti e che come me fremevano per spendere nel mondo quello che finivamo di imparare. Ti dicevo “papà, guardati intorno, quello che io voglio non ha valore in una società divisa, rissosa, fortemente individualista, che ogni giorno svende i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili, di carriere feroci fatte su meriti inesistenti”.
“Qui io muoio. Muoio come intellettuale, perché le mie idee non vengono alimentate dal nuovo che nasce oltre confine. Muoio come persona, perché a pochi interessano le conseguenze della propria indifferenza. Muoio come professionista, perché nessuno mi spiega e accetta regole chiare per costruire una carriera. Muoio come italiano perché mi sento troppo diverso da chi continuo a guardare dal basso in alto”.
Quando mi hai accompagnato all’aeroporto ho cercato di invertire i ruoli, per fare quello che tu avevi fatto con me il mio primo giorno di scuola cercando di lenire la mia paura, e per dirti “fidati di me, è la scelta giusta”. Quando mi sono girato per l’ultima volta , oltre i controlli di sicurezza, l’ho vista quella paura, ho visto come si mescolava alle lacrime di rabbia che cercavi di soffocare. Sapevo che ti sentivi responsabile di quella partenza, perché tu hai la mia stessa sete di giustizia, ma pensavi di non averla protetta a sufficienza, hai la mia stessa voglia di vedere l’impegno premiato, ma temevi di non aver fatto abbastanza per difendere questo principio nel tuo paese.
Non era così, papà. Quel giorno non te l’ho detto, perché non sapevo quanto sarebbe durato quel mio viaggio. Non volevo che tu restassi in piedi tutte le notti ad aspettare il mio ritorno. Ora, però, che ti sei abituato alla mia distanza, te lo posso spiegare. Sono partito perchè avevo bisogno di respirare, non per colpa tua. Volevo vedere se esistesse davvero un mondo come quello che volevi tu. Sono andato a caccia, papà, e presto tornerò con il sacco pieno, perché io quel mondo l’ho trovato. Esiste, è sparso, un pezzo qui, un pezzo lì, quel mondo aperto, responsabile, trasparente, equilibrato, che io e te abbiamo sempre voluto, esiste. É fatto di colleghi che si aiutano, di cittadini che si respettano, di persone che non hanno paura del futuro, di merito premiato, di impegno riconosciuto, di buone idee che non si snaturano nei meandri della politica e delle burocrazie.
Preparati, papà, perché ho voglia di mostrartelo, di farti vedere che la ricerca è stata fruttuosa e che andando, raccogliendo, e tornando, la mia passione per quei principi e la mia voglia di portarli qui, indietro, non passa. Anzi.
Con affetto,
Tuo figlio Davide
(Stavanger, 30 novembre 2009)

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