Amici, se avete guardato internet parte della notizia la avete già avuta, anche se i media la riportano in modo incompleto e distorto.
Qui ad Ankara ora è sera e come ogni sera da sabato ci sono proteste per strada, civili e pacifiche, fatte da gente che nella maggior parte dei casi scende in piazza per la prima volta; e come ogni sera da sabato per strada la polizia reprime (galleria fotografica) brutalmente le manifestazioni spontanee.
In centro, chi viene trovato per strada viene caricato sui mezzi della polizia e portato in carcere. Secondo le fonti del ministro degli interni turco, sono stati arrestati finora 1700 manifestanti; quanti siano stati rilasciati è impossibile dirlo: in Turchia, paese candidato a entrare nell’Unione Europea, le leggi antiterrorismo hanno una portata amplissima e trasformano un qualunque essere umano in un potenziale terrorista.
Sidar, un ragazzo turco di origine curda, ha ambedue gli zii in carcere da sei mesi, sono dipendenti statali e sono stati messi in carcere con l’accusa di terrorismo e non sanno perché: non hanno finora ancora potuto avere accesso ai documenti relativi ai capi di imputazione con cui sono tenuti in carcere. Alcuni mesi fa, dopo avere passato in carcere più di un anno, sono stati scarcerati quattro studenti universitari che erano stati oggetto della stessa accusa: avevano cantato slogan ed esposto striscioni contro il premier Erdogan durante una sua visita in Università (nonostante l’assoluzione, l’Università li ha radiati dai suoi corsi mettendo verosimilmente un’ipoteca sul futuro professionale dei giovani). Questi episodi sono la quotidianità della vita per i Turchi: non c’è pace per chi prova a contestare le decisioni e la condotta di Recep Tayyp Erdogan, primo ministro della Turchia dal 2003 e del suo partito AKP.
Di come il partito AKP e il premier Erdogan abbiano governato la Turchia in questi dieci anni e di come la abbiano trasformata in una piccola potenza economica regionale, ma a vantaggio dei soli “clientes” del partito AKP, potete leggere altrove, per esempio in questa analisi. Quello che non è facile trovare nei media italiani, né tantomeno in quelli turchi, è il racconto dell’arroganza e della violenza di quello che sta succedendo: il premier Erdogan continua a scegliere di giocare il ruolo dell’incendiario e mentre la polizia lancia gas lacrimogeni ad altezza d’uomo sui manifestanti (alcuni, il numero è incerto, sono morti per essere stati raggiunti direttamente dai bombolotti, altri travolti dai mezzi della polizia) il capo del governo dichiara sprezzante che se i manifestanti sono centomila lui da parte sua può portare in piazza un milione di persone, che per ora – dice – sta tenendo buoni a casa.
Ieri, domenica, diversi testimoni oculari hanno riferito di avere visto la polizia sparare gas lacrimogeni sulle tende indicate come “servizio medico”. Una fonte mi ha raccontato di suo fratello, medico 45enne, preso a manganellate mentre soccorreva un manifestante. Sabato, in centro ad Ankara, in un pomeriggio soleggiato e mentre le forze di polizia inondavano di gas lacrimogeni i manifestanti, l’accesso alla rete telefonica era stato bloccato. Oggi sul sito iReuters un blogger riferisce di come la compagnia di telefonia mobile Turkcell abbia subito pressioni politiche per agire in tal senso.
Da straniero, domando ai turchi come questo sia possibile: il limite fra potere politico e sfera privata non esiste più. Non esiste la distinzione dei poteri, non esiste lo stato di diritto: conta solo la vicinanza al potere del partito di Erdogan. Domando ai miei amici turchi come mai nessun procuratore agisca in seguito a notizie come quelle di questi giorni per verificare se lo Stato abbia commesso reati contro i cittadini. “Ce lo domandiamo sempre“, mi viene risposto con un sorriso ironico (la Turchia è regolarmente condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma sono ammende pecuniarie che lo Stato deve pagare e non c’é giustizia politica che segua).
La stessa logica vale per i gruppi industriali proprietari delle televisioni nazionali: in questi giorni le tv raccontano una storia che esiste solo fintanto che uno non esce di casa, una storia di gruppetti estremisti, “provocatori”, che agiscono per gettare discredito sull’immagine della Turchia all’estero, usando quel “pericolo per la nazione” che sarebbe Twitter secondo sempre il premier Erdogan. Per questo, la protesta della gente di Ankara sembra irreale: le televisioni non parlano di loro, e fino a sabato pure i media occidentali li ignoravano.
Ma cosa vogliono i manifestanti, di Ankara, di Smirne, di Istanbul da dove la protesta è iniziata per un motivo ormai divenuto secondario (il progetto del governo di eliminare l’unica zona verde del quartiere Taksim per costruirci un centro commerciale) e delle altre città turche? Gridano “governo dimettiti“. Chiamano Erdogan “dittatore“, e definiscono il suo modo di governare lontano da quello del leader di un Paese.
Ma alternative politiche all’AKP al momento non se ne vedono: il partito è forte nel parlamento e nella società turca. Nelle ultime elezioni, tenute nel 2011, il partito di Erdogan ha ottenuto il 49% dei voti: una percentuale incredibile per un solo partito, in Italia come in molti paesi europei. E di questo 49% Erdogan si fa forte per giustificare le sue decisioni sempre solitarie. Ma il problema non è il diritto di Erdogan a governare in base ai voti presi alle elezioni: è piuttosto la sua concezione dell’esercizio di governo come annullamento di ogni limite e di ogni spazio di dissenso, zittendo gli avversari politici, intimorendo la società civile non allineata, inducendo gli altri poteri dello Stato a connivenza, usando le leggi antiterrorismo, i canali televisivi e i servizi dello stato come se fossero estensioni del suo potere personale.
Kemal, che ha 29 anni, mi dice che la maggior parte dei giovani in questo paese è stata cresciuta in modo apolitico dalle loro famiglie, per proteggerli dalla violenza: “per questo“, mi dice, “questa manifestazione ha colto di sorpresa il governo“. Emine, due anni più giovane, è gioiosa: “per la prima volta i giovani sanno che questo paese appartiene a loro. Prima era solo il paese che abitavano“. Mentre Selim, un mio amico anziano, tace in questi giorni: gli chiedo perché e mi dice che è molto preoccupato, ricorda le manifestazioni e i colpi di stato dei decenni passati. Ricorda tempi andati, ma i pericoli di oggi non sono più quelli.
Nessuno qui in Turchia crede possibile un colpo di stato. E non serve nemmeno, perché oggi la democrazia può essere svuotata dall’interno, privata di senso (che sta nella possibilità di alternative), ma conservata nelle sembianze: “sterilizzata”, senza bisogno di carri-armati e generali golpisti (è probabilmente l’autoritarismo democratico di paesi che stanno a Est della nostra Unione Europea: la Russia e la Turchia). E tutto questo pone un problema, a noi italiani e noi europei: se dirsi europei deve avere un senso, come possiamo sostenere che questo senso esista se guardiamo ad est e non troviamo motivo di scandalo in quanto sta succedendo ad Ankara?
Quello che succede in Turchia parla non solo della Turchia di oggi ma parla anche e molto dell’Europa del futuro: se come europei non abbiamo la determinazione – oddio, la voglia – di sentire come questione nostra quello che succede per le strade di Ankara, come potremo ancora credere che l’Europa sia un progetto di civiltà, e non solo un mercato? Credo che bisogna pretendere la cessazione immediata delle violenze commesse dalla polizia sui civili – e inviare poi una delegazione del Parlamento Europeo in Turchia per raccogliere informazioni sugli eventi di questi giorni.
Ma, per fare questo, occorre innanzitutto informare su quello che sta succedendo: i manifestanti di Ankara, Istanbul e delle altre città turche hanno bisogno di sapere che noi, italiani ed europei, capiamo la loro protesta e siamo con loro, e che loro non sono soli. Quindi, se potete, scrivete, copiate questo articolo, postatene altri; in alcune capitali europee ci sono state manifestazioni di solidarietà per i manifestanti turchi: organizzatene di simili nelle vostre città.
Se avete fra i vostri contatti giornalisti o politici (di qualunque parte siano) chiamateli e parlategli dell’urgenza di mettere fine alla violenza di stato in Turchia. E usate quel pericoloso strumento che a Erdogan non va giù, Twitter.
Marco Ferraro @NelBluDipinto