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Lavoro e disuguaglianze durante l’emergenza pandemica COVID-19 – Marta Fana, Ricercatrice in economia del lavoro

 

Marta Fana è una economista che si occupa di mercato del lavoro e diseguaglianze socio economiche. È autrice di due libri: “Basta salari da fame!” e “Non è lavoro, è sfruttamento”. 

Ha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Institute d’Études Politiques di Sciences Po a Parigi, dopo aver studiato all’Università Tor Vergata di Roma, alla Toulouse School of Economics e al Collegio Carlo Alberto di Torino. Ha iniziato l’attività di ricerca studiando appalti e corruzione e oggi si occupa di political economy, in particolare di mercato del lavoro, organizzazione del lavoro e disuguaglianze economico-sociali. 

Secondo Fana, il 1993 è il momento in cui si riapre la forbice delle disuguaglianze in Italia a causa dell’avvio di una fase di bulimia e flessibilizzazione del lavoro che ci porta al 2020.

In Italia infatti, seguendo i dati illustrati dell’economista, il tasso di lavoro a tempo determinato è il motore della crescita. 

Questo la porta a dire che in Italia non c’è un mercato del lavoro rigido, come invece siamo abituati a sentir dire.

Ad esempio, la crescita di lavoro che stiamo osservando vede il 17% di contratti a tempo determinato, a questo si aggiunge il dato il 67% di lavori in Italia part-time contro il 35% dell’Europa. 

Sono questi i dati che Marta Fana riporta per interpretare i diversi rapporti che nel 2019 ci dicono che l’Italia si trova tra i paesi con caratteristiche e peculiarità del mercato del lavoro: tempo determinato e part-time, sono i particolari del nostro sistema economico. 

La crisi c’è da prima del 2020 perché sono state subite le riforme del mondo del lavoro: l’occupazione che viene creata è a scarso lavoro aggiunto e quindi a scarso salario, c’è stato un processo di deindustrializzazione, sono stati imposti troppi pochi vincoli agli investitori esteri. A questo si aggiunge una ulteriore frammentazione che prende la forma di: appalti, sub-appalti caporalato. Si aggiunge a questo il dato che ci dice che non abbiamo mai recuperato il monte ore lavoro che abbiamo perso nel 2008.

“Non ci può essere un problema di competenze in un paese in cui non si è investito”

Secondo l’economista, l’assunto secondo cui dobbiamo rendere il mondo del lavoro compatibile con il Mercato è un assunto sbagliato soprattutto in un paese che: produce meno e peggio, non guarda al futuro del lavoro, in cui diminuisce la richiesta di lavori specializzati e aumentano i servizi che generalmente richiedono lavoratori a bassa qualifica.

Nel 2020 il 13,2% dei lavoratori è povero e la pandemia non ha fatto altro che divaricare ulteriormente la forbice sociale. 

Se quindi, secondo la lettura dell’economista, tutto questo è una conseguenza del 1993, bisogna diffidare dall’espressione e l’invocazione alla responsabilità e all’unità nazionale come si fece in quel periodo storico.

 

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La rappresentanza del lavoro tra forme tradizionali e nuovi modelli – Anna Mori, Ricercatrice di sociologia economica presso l’Università degli Studi di Milano

 

Anna Mori si occupa di esternalizzazione dei servizi pubblici, ha recentemente scritto un libro dal titolo Lavoro Apolide – Freelance in cerca di riconoscimento edito da Feltrinelli.

Il suo campo di interesse è quello dei processi di disgregazione del lavoro, in particolar modo si occupa di lavoratori freelance altamente qualificati e indipendenti. 

L’intervento si incentra sul tema della distanza tra professionisti freelance e corpi intermedi tradizionali di rappresentanza, e di come nuove forme di rappresentanza stanno colmando questo divario. 

L’intervento di Marta Fana ha introdotto una serie di sfide per il futuro del mercato del lavoro:

– la sfida della globalizzazione, una competizione internazionale e globale.

Terziarizzazione, dal settore secondario al settore dei servizi, che richiede una formazione continua, una long learning experience.

Flessibilizzazione dei mercati del lavoro che mettono in crisi i sindacati , perché non c’è più un contratto di lavoro standard.

Esternalizzazione: il lavoro si frantuma, l’attività viene frammentata e suddivisa in singoli task portati avanti da lavoratori diversi, vengono esternalizzate e demandate all’esterno anche attività di altissima competenza e specializzazione, sia nel settore pubblico che privato. 

Quando il lavoro si spezzetta è difficile per il sindacato andare a intercettare i lavoratori, cosi frammentati, atomizzati, questo è ancora più complesso con lo Smart Working”. 

Tutti questi processi, associati a una digitalizzazione dell’economia hanno messo in fortissima crisi la base del sindacato, e questo porta ad un aumento del precariato. 

Le tutele del lavoro sono ancora fortemente agganciate al lavoro subordinato. Nel momento in cui si trasforma il mercato del lavoro vengono meno tutte queste tutele che non sono garantite nei confronti di queste nuove e atipiche forme di lavoro. 

Il focus delle ricerche di Anna Mori riguarda i lavoratori a partita Iva.

Negli scorsi decenni, i casi riguardanti lavoratori a partita Iva sulla stampa erano legati al fenomeno delle false partite Iva. Questa narrazione ha funzionato, ma più recentemente, dopo la crisi del 2008 emerge una visione diversa.

Questi lavoratori autonomi rappresentano un nuovo segmento del mercato del lavoro in crisi, precario, perché lamenta intermittenza di salario e mancanza di tutele. Si sta verificando quindi una nuova forma di precariato, altamente qualificato. 

Il termine che dà il titolo titolo al libro, Lavoro Apolide, descrive un nuovo habitat, un l’uovo ambiente sociale in cui i lavoratori perdono cittadinanza sociale, e quindi non hanno accesso a diritti e tutele del lavoro, nonostante siano in cerca di queste. “Freelance in cerca di riconoscimento”.

Secondo Bologna e Fumagalli, all’interno del loro libro, identificano con i lavoratori autonomi di seconda generazione quei professionisti che nel corso degli anni ‘90, in una situazione in cui l’economia era più flessibile, hanno iniziato la carriera da freelance data la necessità nel mercato di consulenze specialistiche.

Secondo questi lavoratori freelance la triade del successo è composta da: libertà nella scelta delle committente, flessibilità dei ritmi di lavoro e competenze specialistiche che permettono di mantenere la competitività. Questa idea di lavoro autonomo dopo vent’anni è entrata in crisi con la crisi economica del 2008. 

Queste tre armi vincenti, appena citate diventano dei boomerang, perché flessibilità e libertà diventano forme di lavoro a tutte le ore, mentre le competenze si depauperano sempre più.

Al contempo si registra un impoverimento complessivo del mercato del lavoro, oggi in Italia assistiamo a una tendenza di downgrading e non di polarizzazione, come invece sta accadendo in altri paesi. 

All’interno di una serie di progetti di ricerca sul lavoro autonomo, Anna Mori è andata a vedere quali forme di rappresentanza danno voce a questo segmento: Il sindacato, oltre ad essere esso stesso in crisi, non è mai riuscito a dare giusta rappresentanza a questo particolare segmento, perché più orientato a cercare di riportare questo segmento nell’alveo del lavoro subordinato, non comprendendo che in realtà tanti scelgono liberamente il lavoro autonomo. 

In questo contesto stanno emergendo forme e soggetti che si occupano di rappresentanza.

Le prime evidenze lampanti emerse in Italia, in prospettiva comparata, ma condivisa in tutte le realtà europee sono le seguenti:

  1. Il sindacato è in ritardo, è inconsapevole della domanda e i soggetti istituzionali (associazioni di categoria, ordini professionali) non hanno gli strumenti per capire la domanda.
  2. Questa distanza dei soggetti istituzionali e questo vuoto è stato colmato da nuovi soggetti associativi e organizzativi che hanno alcuni tratti comuni:

Vengono dal basso: vengono dai lavoratori stessi che scelgono di unirsi.

– Sono trasversali: questo aspetto rappresenta una rottura rispetto al passato, a differenza dei sindacati, che organizzano il lavoro sulla base di compartimenti verticali e separati, per categorie merceologiche precise e distinte (metalmeccanici, funzione pubblica), la trasversalità funziona e il mettere insieme diversi settori, accomunati solo dal fatto di essere lavoratori autonomi, crea un collante, una base di mobilitazione comune.

Tra le esperienze citate si riportano Start Italia, il modello cooperativo di Doc Servizi e ACTA. Questi soggetti si occupano di fare azioni di lobby e advocacy con le istituzioni a livello nazionale e vengono considerati come funzionali a quello che il welfare state odierno non riesce ad offrire per queste categorie di lavoratori.

Oggi i sindacati si stanno rendendo conto di quanto sta accadendo e stanno iniziando a interessarsi ai lavoratori autonomi con un nuovo approccio, nonostante continuino ad operare top-down. Un esempio è il caso della Cisl, con il programma Vivace, in cui appare che sia colta l’importanza della trasversalità, ossia mettere i lavoratori a partita Iva in un una categoria e non settorializzarli per area merceologica. 

Le tre principali strategie, o modelli organizzativi detti “old but gold” da parte dei sindacati tradizionali sono:

– la creazione di servizi nuovi che rispondono alle domande dei lavoratori, per attrarli.

– Nuove forme di visibilità, attraverso il web.

– Coalizioni e partnernariati: necessità di unirsi insieme per avere più peso e rappresentanza.

Per quanto riguarda infine le lezioni apprese da questo fenomeno attuale e soprattutto i limiti da evidenziare, si evidenziano:

  1. La difficoltà a fare sintesi di tutte queste necessità così frammentate.
  2. L’azione pedagogica nei confronti del mondo sindacale, che si è reso conto che nuove forme di organizzazione sono possibili.
  3. Le Azioni tampone e di tipo congiunturale, invece che strutturale.

Ad ogni modo, “un cambio di paradigma sta muovendo i primi passi”.

A livello europeo si sta pensando di ampliare la forma di contrattazione collettiva tipica del lavoro subordinato anche alle forme di lavoro autonomo. Con tutte le difficoltà e i limiti del caso. La difficoltà sta nel fatto che non è facile capire che tipo di soggetto può rappresentare in modo riconosciuto i lavoratori autonomi, né è facile capire chi è o chi sono i datori di lavoro. 

Presentazione del libro “Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa” – Valentina Furlanetto, Giornalista di Radio 24 – Il Sole 24 Ore

 

La mattinata è continuata con la giornalista di Radio 24 Valentina Furlanetto. Già autrice di “Si fa presto a dire madre” e de “L’industria della carità”, Furlanetto ha di recente pubblicato “Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa”.

Il suo ultimo lavoro non vuole, come si potrebbe desumere dal titolo, tracciare un confine tra vittima e carnefice: la verità è che ognuno di noi non è una sola cosa, ci ritroviamo a coprire più ruoli. Valentina Furlanetto si occupa da tempo di investigare storie legate alle crisi umanitarie e migratorie, scoprendo e mettendo in luce le storie di chi le vive in prima persona. Le contraddizioni in questo campo, lo sappiamo, sono enormi – ci ritroviamo in un sistema che in qualche modo accetta lo sfruttamento: il “paraschiavismo” su cui ci stiamo sedendo in certi settori e in certi luoghi in qualche modo sostiene il nostro sistema economico.

Furlanetto ha proseguito con il racconto di alcune storie di persone con cui è entrata a contatto. In ognuna di queste storie di sfruttamento, come visto anche in altri interventi, c’è sempre una cooperativa spuria di mezzo. “Alcune cooperative diventano dei veri e propri caporali in giacca e cravatta”. 

In tutto questo anche i media hanno un ruolo – perché talvolta finiscono per inciampare, per pigrizia o malafede, nel raccontare notizie in modo non accurato o addirittura falso: dal commercialista che diventa rider e guadagnerebbe più di prima, ai giovani che non accettano il lavoro. 

Nei suoi viaggi Valentina Furlanetto ha esplorato diversi stabilimenti di carni industriali, diverse strutture sanitarie. Spesso le lavoratrici e i lavoratori si ritrovano senza dispositivi di protezione, in alloggi fatiscenti, in sovraffollamento, impiegati di cooperative che li inquadrano in ruoli che non c’entrano nulla con quello che fanno (in modo da risparmiare). C’è sempre un intermediario istituito per abbattere i costi, come purtroppo c’è sempre un lavoratore o una lavoratrice di origine straniera ricattabili perché alla ricerca di un sostegno e dei documenti necessari per sé e per la propria famiglia.

Durante la pandemia si sono viste situazioni incredibili, per esempio di operatrici sanitarie alle quali è stato detto che le mascherine spaventavano i pazienti. In Italia, nonostante la penuria di personale, per concorrere a diventare medico o infermiere nelle strutture pubbliche serve la cittadinanza italiana, a differenza di altri Paesi. Quindi gli stranieri vengono assunti principalmente da intermediari in subappalto, che li pagano il 40-50% in meno dei colleghi e college. 

Molto spesso chi viene sfruttato finisce per sfruttare: alcune di queste persone, quando capiscono il meccanismo, non vedendone una via d’uscita cercano esse stesse di vivere a discapito di altre persone.

Cambiando settore, si potrebbe citare la situazione dei cantieri navali, dove l’utilizzo del subappalto e della manovalanza di origine straniera è altissimo. La grande ipocrisia qui è che ci sarebbe davvero grande bisogno di operai e operaie, persone che potrebbero essere introdotte nel sistema attraverso le quote di migranti economi, e invece vengono fatte lavorare in condizioni precarie e a cifre bassissime, intaccando negativamente il mercato del lavoro e rendendone impossibile l’accesso a chi non è disposta o disposto a tutto. Un uso indiscriminato di forme di lavoro intermediario consente di abbassare estremamente il costo del lavoro.

Un altro mondo che Furlanetto ha investigato è un pezzo fondamentale del welfare: quello del lavoro di cura delle badanti. I posti nelle RSA in Italia sono troppo pochi rispetto alle necessità, e questo crea maggiore bisogno di supporto a domicilio, che però spesso le famiglie non possono permettersi. Così l’assistenza agli anziani resta un lavoro che viene fatto in buona parte in nero, per via della mancanza di sussidi e incentivi adeguati. 

Le carenze sono a tutti i livelli, e quelli che vengono chiamati “invisibili” sono in realtà visibilissimi. Alcuni si sono accorti di loro solo nel periodo del covid, quando per esempio lavoratori e lavoratrici macedoni a Mondragone uscivano di nascosto durante il lockdown pur di poter andare a lavorare nei campi. Gli anelli di questa catena sono molteplici e più complessi di quello che si possa pensare. Per esempio, come dovrebbero fare i proprietari dei campi quando le ciliegie che vengono vendute a 7 euro al chilo al supermercato, vengono pagate loro solo 1 euro al chilo?

Per uscire da questa situazione non basta la consapevolezza da parte delle consumatrici e dei consumatori – questo è solo il primo step. 

Bisogna mettere mano ai subappalti e definire che tipo di cooperative si vogliano premiare e mettere mano alla filiera GDO; dare possibilità a stranieri e straniere di accedere ai concorsi pubblici e velocizzare le pratiche di cittadinanza e i permessi di lavoro.

Deve esserci una risposta del welfare sugli aiuti agli anziani. Non si possono colpevolizzare i consumatori, che hanno a loro volta devono vedersela con il proprio stipendio. 

La risposta alla pandemia in Europa e negli USA: chi riuscirà a ‘Build back better’? – Alessandro Speciale, Rome Bureau Chief presso Bloomberg

 

Alessandro Speciale si interroga, nel corso del suo intervento, su come sono state uguali e diverse le risposte alla pandemia, in una comparazione UE-USA.

Il dato aggregato dell’UE parla di poco meno del 60% di vaccinati, ma se si pensa a chi può avere i vaccini (over 12) si supera il 70% Negli USA invece c’è stata una scelta diversa perché la resistenza è stata molta, e la percentuale di persone che decidono di sottoporsi alla vaccinazione cresce più lentamente rispetto all’Europa.

Per quanto riguarda l’impatto economico invece, nonostante le difficoltà vaccinali (periodo piu lungo, caduta meno profonda) c’è stata una risalita molto più rapida negli USA.

Già a metà di quest’anno gli Stati Uniti hanno superato il livello precedente la pandemia, hanno cancellato tutti gli effetti, a livello di PIL, cioè di produzione. L’Unione Europea ci arriverà a fine 2021, l’Italia il prossimo anno.

Molte delle cause della recessione sono legate alla contrazione dei consumi domestici, invece gli investimenti sono in grande calo in Europea, a differenza degli Stati Uniti, che hanno subito molto meno il calo degli investimenti. 

In questo momento occorre pensare alle misure, ma ci vuole tempo, perché anche se c’è domanda, non è facile rispondere velocemente a questa domanda (mancano medici, materiali, macchinari).

Quanti soldi hanno speso gli Stati: 

Gli Stati Uniti hanno speso praticamente il doppio (loro possono comprare a debito, raccogliere i fondi a debito, in Europa e in Italia è più difficile, dovendo stare attenti a non fare nuovo debito (stabilito durante la crisi del debito sovrano nel 2007 fino a 2013-2014).

Il ruolo degli stabilizzatori automatici, come gli assegni di disoccupazione, entrano in funzione automaticamente quando c’è una crisi, non c’è bisogno di crearli, sono sistemi automatici.

Se si tiene conto della spesa della pandemia, e in più quanto sono costati, la distanza rimane ma si accorcia rispetto agli USA.

Entrando più nello specifico, Speciale analizza il modo diverso in cui UE e USA hanno speso:

Gli Stati Uniti, non avendo uno stato sociale per raggiungere tutta la popolazione ha emesso degli assegni e li ha inviati alle persone via posta: nell’ultima versione di tale misura,Biden ha distribuito 1200 dollari al mese in maniera indiscriminata a tutti.

Per quanto riguarda l’Unione Europea, avendo uno stato sociale più strutturato è riuscita a lavorare su aiuti più mirati (bonus, garanzie…) ma comunque l’effetto psicologico di avere soldi nella posta è più forte. È uno strumento grossolano ma d’effetto.

Quindi in definitiva i lavoratori europei, che hanno perso il lavoro o visto diminuite drasticamente le entrate alla fine si sono ritrovati in tasca più di quanto hanno ricevuto dagli americani, ma l’effetto psicologico è diverso.

L’unica differenza è sul mercato del lavoro e riguarda la cassa integrazione. Negli USA la disoccupazione è cresciuta ma è anche scesa velocemente, vista la flessibilità in entrata nel mercato del lavoro.

A questo punto, la questione è come ricostruire l’economia, Speciale osserva due aspetti:

  1. Ora si può spendere molto, ci sono molti più soldi di quelli che si credeva quindi si può reinventare l’economia, affrontare le sfide per il cambiamento climatico, il mercato del lavoro, e quindi “sfruttare l’occasione”.
  2. Se non si aiutano le persone nel momento di difficoltà queste perdono capacità, perdono skills, perdono voglia e questo distrugge competenze, e ha effetti immediati e effetti a lungo termine.

Per rispondere alla questione strutturale, il piano economico italiano è in totale di 750 miliardi e permette di fare investimenti di medio-lungo termine che altrimenti non si sarebbero mai fatti, questo momento è estremamente importante ed è necessario cogliere questa opportunità. 

Paesi come l’Italia non sarebbero in grado di assorbire un altro di questi colpi. Si pensi che l’italia è il maggiore beneficiario di tali misure di finanziamento tra tutti i paesi EU.

L’Italia ha speso molto per assorbire i colpi della pandemia ma ci sta mettendo molto per provare a modellizzare la propria esperienza.

Molte persone che hanno perso il lavoro non hanno voglia di cercare un nuovo impiego, i sussidi di disoccupazione sono molto più generosi.

Sta risalendo molto l’inflazione quindi se i prezzi aumentano così tanto le banche centrali dovranno alzare i tassi e questo sarebbe un colpo durissimo. Per ora questo è un effetto temporaneo, perché aumenta la domanda e i prezzi salgono, ma non è strutturale. 

Per concludere emerge che l’UE è stata più lenta a rispondere alla crisi, ma questo è motivato dal fatto che l’UE è composta da ventisette paesi distinti. Nonostante ciò ci sono benefici a lungo termine. 

Il patto di stabilità attualmente è sospeso. (Il Patto di Stabilità fu frutto della crisi del debito sovrano, poi furono stabilite regole molto precise). Nel 2022 verrà riscritto, sara piu adatto a questa nuova situazione.

Adesso gli stati possono intervenire per salvare le proprie aziende perché colpe non loro.

A livello mondiale ci si aspetta il sorpasso dell’economia cinese sugli USA.

Il modo in cui Biden ha sfruttato l’occasione di migliaia di dollari di investimenti in infrastrutture, welfare’se contrasto al cambiamento climatico ha permesso di rimandare il sorpasso della Cina o forse di evitarlo completamente perché ha dato una scossa per uscire dal lento declino, semi stagnazione in cui gli Stati Uniti erano caduti, ma quest’ultima in particolare è una visione ottimistica

“Se c’è qualcosa che vale la pena di fare, i soldi si trovano.”

Decolonizzazione: costruire nuove narrazione sulle migrazioni per ripensare le distanze – Yvan Sagnet, Attivista e Presidente Associazione internazionale NoCap e Giovanni Abbate, Referente Organizzazione Internazionale per le Migrazioni

 

Obiettivo della talk è stato quello di affrontare il tema delle migrazioni da punti di vista differenti, andando oltre la sola trattazione degli ultimi sbarchi e della prima e seconda accoglienza dei richiedenti asilo nei centri. Temi importanti, che occorre però tornare a considerare come tasselli di un fenomeno molto più complesso e antico: un’esperienza migratoria che inizia nel paese d’origine fino al raggiungimento di una ideale autonomia e cittadinanza. Un percorso lungo che può durare anni, e che per troppe persone si interrompe nel lavoro sfruttante.

Un percorso ben delineato da Giovanni Abbate, Referente OIM, che ha raccontato lo sfruttamento come un fenomeno trasversale ai settori produttivi, e delineato i profili delle persone sfruttate, ben lontani da quelli proposti da una narrazione mainstream.

“Quando si parla di caporalato, viene facile pensare all’agricoltura. Ma di fatto questa forma di sfruttamento appartiene anche all’edilizia al manifatturiero, all’alberghiero, alla ristorazione, ai lidi, agli autolavaggi, alla logistica”.

Ma chi sono gli sfruttati? Il fenomeno ha riguardato i nostri nonni, i nostri genitori, e oggi riguarda la popolazione straniera. A cadere nella trappola del caporalato non sono soltanto cittadini di paesi terzi irregolarmente presenti sul territorio (che pure vivono in una condizione di particolare vulnerabilità), ma anche persone con regolare permesso di soggiorno. E a sfruttare non sono soltanto italiani, quando le aziende che commissionano i lavori si avvalgono di catene che affondano all’interno delle comunità straniere, dove trovano i propri intermediari. Nuove evidenze importanti, che OIM ha potuto raccogliere supportando i lavori dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, affiancando agli ispettori i suoi mediatori linguistico-culturali. Una precondizione necessaria per ascoltare davvero chi vive in una condizione di sfruttamento. 

“Prima gli ispettori entravano nelle aziende e incontravano cittadini di paesi terzi senza saper parlare altra lingua dall’italiano. Così si interfacciavano soltanto con un intermediario, che però probabilmente svolgeva anche la funzione di intermediario con il datore di lavoro, in odore di caporalato. L’affiancamento dei mediatori interculturali ci ha dato nuova visione sul fenomeno.”

Anche grazie a questa nuova pratica, in un anno e mezzo sono state effettuate 212 denunce di sfruttamento, a fronte delle sole 50 denunce registrate in 8 anni su tutto il territorio nazionale.

Secondo Abbate, lo sfruttamento lavorativo non ha a che fare soltanto con condizioni di lavoro più o meno gravi. Ma ha a che fare con la criminalità organizzata, le politiche di mercato, processi di colonizzazione, e naturalmente con la produzione di vulnerabili cui concorre anche l’attuale sistema di accoglienza. Un problema complesso che richiederà la massima consapevolezza e soluzioni concrete e articolate da parte delle istituzioni di livello nazionale.

Dello stesso parere è Yvan Sagnet, Attivista e Presidente Associazione internazionale “NoCap”, associazione fondata proprio per aggredire le cause più alte e lontane dello sfruttamento lavorativo.

Sagnet ha raccontato la sua esperienza di sfruttamento e di riscatto collettivo nelle campagne di Nardò del 2011: una storia di sofferenza, scioperi e lotte su più fronti, che hanno portato al riconoscimento del reato di caporalato con conseguenze anche sui datori di lavoro. 

“Oggi confondiamo il neo-schiavismo con lo schiavismo ‘puro’ di quattro secoli fa, legato alla totale privazione delle libertà individuali. Ma è schiavitù anche uno stato di soggezione continua della vittima, esercitato con strumenti nuovi. Lo sfruttatore non ha bisogno di legarti per sfruttarti. A Nardò, ci confiscavano i documenti”. 

A Rosarno c’è stata una protesta, a Nardò uno sciopero. Spesso si confondono i due termini. Lo sciopero non è una protesta, non è una manifestazione. È uno stato di consapevolezza maturato dai lavoratori, che decidono di fermare la produzione per rivendicare dei diritti. Noi abbiamo bloccato la produzione di pomodoro e angurie per circa 1 mese e mezzo in tutto il Salento. E così sono arrivati i primi contratti”.

“Da bravo ingegnere, volevo agire sulle cause dello sfruttamento. E mi sono chiesto: chi è che sta sopra i caporali? Se ci sono caporali, forse ci sono anche i generali.”

Nella sua inchiesta “Ghetto Italia”, Sagnet ricostruisce la filiera dello sfruttamento: una catena che arriva fino alla grande distribuzione e alla logica del ribasso dei costi. Proprio per aggredire il fenomeno dello sfruttamento alla radice ha fondato l’associazione NoCap, ha acceso per prima in Italia i riflettori sul fenomeno del caporalato innescando un processo di presa di coscienza a tutti i livelli: istituzionale, con l’adozione della prima legge nazionale contro il caporalato; e imprenditoriale, proponendo un nuovo modello economico basato sull’etica e sullo sviluppo sostenibile anche attraverso attività di assistenza ai lavoratori, di monitoraggio e controllo sul campo delle condizioni di lavoro, e assistenza legale alle imprese per la messa in regola dei lavoratori.

 

Presentazione del libro “L’Unica persona nera nella stanza” – Nadeesha Uyangoda, Autrice

 

Nadeesha Uyangoda è un’autrice freelance, giornalista e scrittrice. Si occupa principalmente di tematiche di identità, razza e migrazioni.

 “Il razzista inconsapevole è una persona che conduce una vita pressoché monocolore. I suoi amici sono bianchi, i colleghi, la famiglia. Raramente interagisce con persone di colore, e lo fa in modo superficiale….”

La prima parola chiave dell’intervento di Uyangoda è decolonizzare

“Capiamo cosa significa il termine decolonizzazione e perché è importante parlarne?”

Uyangoda prende come esempio i musei: c’è un museo interessante a Bruxelles, che di fatto ospitava tutti i saccheggi coloniali, e che adesso ha cercato di dare un approccio post-coloniale, o di storicizzare i contenuti presenti nel museo. Ed è stato un tentativo abbastanza di successo, anche perché all’interno, il personale del museo è in gran parte composto da afrodiscendenti. Il movimento nato dopo Black Lives Matter sullo spazio pubblico e la sua decolonizzazione.

“Come immaginiamo i luoghi di cultura, che prospettiva utilizziamo per immaginare e creare questi spazi? Uno dei principali aspetti del pensiero coloniale è dimostrare come si assume una prospettiva europea ed egemonica, una stessa prospettiva. Europea, maschile, bianca.”

Sempre dal punto di vista culturale è bene tenere a mente che nella storia sono esistiti sistemi giuridici e amministrativi diversi da quelli europei, anche di origine più antica. Riguardo alla democrazia si dice sempre che è una creazione greca, europea, ma potrebbe non essere così.

La seconda parola presa in esame è Tokenism.

Questa parola deriva da Token, che significa pegno. E’ un oggetto a cui attribuiamo un valore simbolico e rappresentativo. Di tokenismo si parla per la prima volta negli anni ‘80, questo fenomeno viene studiato in università all’interno dei gruppi asimmetrici in cui c’è una componente dominante e una componente di minoranza. Una componente non soltanto etnica, ma in questo caso di genere. Viene studiato come la minoranza agisce nelle relazioni con la parte dominante e viceversa.

Per comprendere meglio questo comportamento, Uyangoda cita le parole di un giornalista del New York Times, il quale dice che negli show televisivi c’è sempre e soltanto una figura femminile (che rappresenta tutte le donne) ed è sempre inserita all’interno di un gruppo di maschi. E il tokenismo arriva così a parlare di rappresentazione di genere in cinematografia.

Ora se ne parla in termini di minoranze etniche all’interno della narrazione televisiva. Il tokenismo è quel tentativo marginale di sembrare, più che di essere, inclusivi. Si fanno delle scelte affinché all’interno di uno show televisivo ci sia sempre un token  ethnic character. I token servono a rassicurare gli spettatori, perché si presume che l’audience standard sia bianca, e che questa audience bianca possa essere rassicurata dalla presenza di un personaggio di razza etnica (“lo vedo, questa produzione è inclusiva”). Dall’altra parte, questo personaggio si comporta in modo così stereotipato, che lo spettatore bianco standard si concentra sulle differenze e percepisce un essere umano diverso. 

Il terzo tema affrontato durante l’intervento riguarda le espressioni “di colore” o “nere”?

In Italia non ci sono così tante etichette o modi di descrivere le persone di minoranza etnica. Si è utilizzata la N word, per una serie di confusioni. E poi dagli anni ’90 in poi, si è adottato in modo politicamente corretto l’espressione “di colore”. Qual è il problema di “di colore”, è che ci dà l’idea che le persone bianche non siano di colore, e che sia uno standard (la cui variazione genera il colore) 

“chi dice che la nerezza è una costruzione razziale e la bianchezza no. In Italia che parole possiamo usare?”

“Sono dell’idea, dopo tanti anni che lavoro in questo settore, che siamo tutti razzisti inconsapevoli. Sulla questione delle parole. Alcuni sono expat, altri migranti. Non mi convincono fino in fondo queste parole, ma di fatto in Italia in questo momento non in cui si decidono le sorti di centinaia di migliaia di persone, non ci sono quasi mai le persone di cui si decidono le sorti.

In Italia non abbiamo la varietà di altre lingue, un po’ per la povertà del dibattito pubblico sul tema razziale. E’ il dibattito che porta al cambiamento del linguaggio (e infatti in Italia facciamo fatica a usare i femminili). 

“Io evito di usare il termine nero perché nella società italiana non c’è la storia di una polarizzazione tra bianchi e neri afrodiscendenti. In Italia c’è la storia di un arrivo da altre parti oltre ad africa subsahariana. E questa storia va considerata.”

“Penso che l’importanza di avere una prospettiva decoloniale sia quella di farti sentire scomodo. Farti venire un certo senso di colpa. Riconoscere dentro di sé tutto il sistema razzista che volente o nolente abbiamo interiorizzato. Ed è importante ammetterlo… fare questo tipo di riflessione anche sul linguaggio è utilissimo anche per accendere questo senso di inadeguatezza costruttiva e decostruttiva.”

Questo articolo è un lavoro di intelligenza collettiva coordinato da Giulia Naldi, e scritto con Giulia Paciello, Matteo Cadeddu, Paola Brizi e Nicolò di Bernardo ed il supporto nella pubblicazione di Michela Mattei e Andrea Taverna.

La Rena Summer School “Abitare le Distanze” è stata resa possibile grazie al contributo di Intesa Sanpaolo, il patrocinio della città di Matera ed il supporto di Forum Disuguaglianze Diversità, Ambasciata Stati Uniti, Scuola di Mobilitazione Politica e Lo Stato dei Luoghi.

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