In genere i ringraziamenti si mettono nei titoli di coda. Oggi non sarebbe sufficiente.
Per un motivo molto chiaro. Guardatevi incontro. Guardate quanti siamo. Oggi ci stiamo accorgendo con un po’ di stupore che RENA ha la forza per chiamare a raccolta un pezzo grande e vitale del nostro Paese, perchéè questo che siete. Oggi ci accorgeremo che RENA ha davvero la forza per unire, nonostante la stagione quasi estiva, 480 teste che ragionano e 480 cuori che battono, e chiedere loro di raccontarci, una mattina di primavera, come si cambia l’Italia.
Ecco, questa forza non nasce dai soldi – RENA non ne ha. Non nasce dal potere. RENA non ne cerca. La forza che ci permette di fare quello che stiamo facendo oggi ha un nome ben preciso, e ve lo voglio svelare.
Si chiama Cecilia Manzo, Francesca Mazzocchi, Valeria Adani, Roberta Franceschinelli, Michele D’Alena, Letizia Piangerelli, Claudia Coppola, Davide Agazzi.
Li voglio ringraziare uno per uno, in apertura, perché quello che hanno fatto è assolutamente fuori scala e fuori misura. Abbiamo perso il controllo, ed è bellissimo.
Questa è la nona Assemblea Generale di RENA. È una cosa diversissima dal passato, a partire dal nome: l’abbiamo chiamata Festival, non Assemblea. Eppure, riflettendoci bene stanotte, il mio sentimento oggi è diverso dalle ultime assemblee. Dalla Notte dei Pionieri di Milano, dalle Serate di Firenze e di Matera. Forse è qualcosa di molto più simile a quello che i fondatori di RENA sentivano nella pancia e nel cuore il giorno della prima assemblea di RENA.
Provo a riportarvi indietro nel tempo. Era il 2008, e in una sala molto più piccola di questa c’erano 30/40 persone che non si conoscevano tra loro. Non era un evento, era un incontro. Un incontro di persone individualmente eccezionali, che erano a un passo dal conoscersi e dal riconoscersi, e che avevano una voglia matta di mettersi al servizio del Paese. E l’hanno fatto, eccome.
Anche oggi voglio dire che non ci troviamo dentro a un evento. Anche oggi siamo dentro a un incontro. Ma attenzione: non è un incontro di individui brillanti. Quello di oggi, lasciatemelo dire, è molto di più: è un gigantesco incontro di comunità del cambiamento. A ciascuno di voi seduti qui dentro fa capo una comunità più ampia là fuori. Chi nella pubblica amministrazione, chi nell’impresa, chi nel terzo settore, chi nella scuola, tutti voi siete snodi vitali di qualcosa di più grande di voi. Reti formali o informali, istituzioni complesse o piccole associazioni ramificate nei territori. Tutte accomunate da alcune caratteristiche, che RENA in questi anni ha mappato, nella sua ricerca di cosa stava succedendo nelle vene più profonde del Paese. Queste caratteristiche le ripetiamo da tempo.
Primo: siete comunità, non individui.
L’abbiamo già detto. Ma questo non significa solo che siete tanti, o che contate di più. Significa che avete imparato sulla vostra pelle due cose molto chiare di questo nuovo secolo: primo, che le cose belle, i cambiamenti desiderabili non avvengono se non si riesce a mobilitarci dietro una comunità, se non si crea una “domanda di cambiamento” intelligente e operosa che sostenga questi cambiamenti.
Seconda cosa: che in un’epoca in cui il cambiamento avviene a velocità supersonica, le comunità hanno solo un modo per rimanere salde: ancorarsi a valori.
I valori condivisi, più delle regole e delle procedure, ci rendono resilienti, come comunità. Sono il giroscopio che ci permette di capire cosa sta sopra e cosa sta sotto mente voliamo in uno stormo. Senza valori, senza il senso di responsabilità di obbedire a questi valori, l’eccellenza italiana si butta via. E allora il Mose diventa tangenti, l’expo diventa ‘ndrangheta, la collaborazione diventa clientela, la speranza diventa cinismo. E invece abbiamo il dovere di trattare il nostro Paese con AMORE E SEVERITÀ, come si fa con i bambini, amandolo ma senza accondiscendenza, senza sconti, senza scorciatoie. Questo significa essere una comunità fondata su valori.
Seconda caratteristica: le comunità del cambiamento come voi fanno impatto, non testimonianza.
Preferiscono mettere in campo soluzioni concrete ai problemi piuttosto che indignarsi. Hanno la passione per le cose fatte, e meno per le parole dette. Rispondono all’indignazione non con la moderazione. Ma con la DIGNITÀ. Che è la cosa meno moderata che esiste. Dignità significa riempire di senso le parole, e tenerle piene di senso fino a che queste parole non si trasformano in fatti, fino a che queste parole non cambiano la vita delle persone che ci circondano. Impatto e non testimonianza significa fare crowdfunding invece che fiaccolate, fare consumo responsabile invece che manifestazioni. Significa piantare grano nei terreni della mafia, ripulire i quartieri, fare informazione civica, consultare i cittadini per le decisioni importanti della Pubblica amministrazione.
E poi le comunità del cambiamento sono ibride, sperimentali, imprenditoriali. Non sono ideologiche, e forse anche per questo sono meno compatte tra loro. E sanno fallire, assomigliano di più a startup che a comitati. Hanno logiche più vicine all’impresa e all’innovazione che all’associazionismo classico e all’attivismo. E sanno che il cambiamento passa anche per un modo nuovo di fare impresa, che è un gesto altamente politico. Perché significa creare un pezzo di mondo che non c’era e che funziona secondo i valori in cui credi. Questo ce lo racconteranno stasera anche i giovani imprenditori che abbiamo invitato.
Ecco. Voi per RENA siete tutto questo. E per tutti questi motivi vi chiamiamo “comunità del cambiamento”. A voi voglio dire anzitutto la stessa cosa che RENA disse sette anni fa ai singoli individui che si raccolsero alla prima assemblea: guardatevi intorno, NON SIETE SOLI. Esiste un filo sottile che lega chi fa Open data e chi fa innovazione rurale. Tra chi riorganizza le comunità nel territorio e chi fa policy making in maniera innovativa c’è un legame. E c’è un legame Tra l’antimafia e la scuola aperta. E questo filo sottile va coltivato, va trasformato in identità. Oggi è il giorno in cui iniziare a rafforzare questo legame inconsapevole.
Dicono gli studiosi che prima che gli operai inglesi della rivoluzione industriale cominciassero a sentirsi una comunità unita ci vollero cento anni di serate al pub e di mutuo soccorso, cento anni di canzoni popolari e di ritrovi la domenica pomeriggio. Solo dopo cento anni di tutto questo capirono di essere una comunità in grado di incidere sul mondo intorno. Ecco, cerchiamo di iniziare oggi, e di non metterci un secolo.
Ma sentirsi un gruppo, una galassia coesa di comunità, non basta. Ed è per questo motivo che a queste comunità io sento, da Presidente di RENA e da cittadino di un Paese che ancora stenta a svegliarsi, io sento il dovere di chiedere qualcosa in più. Dovete, dobbiamo, riconoscere che le comunità del cambiamento che rappresentate sono, si, tante, piccole, diverse e differenziate tra loro.
Ma NON SONO NICCHIE, non sono eccezioni che confermano la regola. Al contrario. Sono MUTAZIONI, sono AVANGUARDIE che cambiano le regole. Non solo per loro, ma per tutto il Paese. Sentirsi nicchia è confortevole e gratificante, finché non vieni spazzato via. Ci deresponsabilizza, perché ci illude che quello che facciamo, per quanto bello, riguardi solo noi. E che se non riusciamo a cambiare il Paese, beh non importa, lo farà qualcun altro, io resto nella mia nicchia. Sentirsi una nicchia ci permette di dire “io l’avevo detto” quando le cose fuori vanno male.
Bene, Tutto questo noi non ce lo possiamo più permettere. Il mondo corre, e perfino la politica – pare – si è rimessa in moto. Dobbiamo fare in modo che le comunità del cambiamento sentano sulle spalle la responsabilità del cambiamento che stanno portando. Che si facciano carico di esprimere nel Paese quella domanda qualificata di cambiamento senza la quale anche la politica più veloce ed efficiente resterà inerte di fronte alle sfide del presente.
È il momento che le comunità del cambiamento si guardino in faccia e capiscano che ormai non c’è nessuno tranne noi in campo. Che le scatole del novecento sono vuote, e bisogna riempirle di nuovi contenuti. Che siamo nella partita e che dobbiamo giocare.
E allora diciamolo chiaro. Gli artigiani digitali non sono una nicchia dell’artigianato che cerca di sopravvivere alla crisi. Sono l’anticipazione di come il Made in italy conquisterà di nuovo i mercati mondiali. I contadini di nuova generazione non sono una nicchia di rinuncianti che abbandonano la civiltà e si ritirano in campagna. No. Sono i custodi della nostra biodiversità, che si stanno reinventando il rapporto tra bit e materia, tra velocità lineare del progresso e lentezza ciclica della terra. I cittadini attivi che monitorano le politiche pubbliche non sono una nicchia di secchioni o di criticoni. Sono la Repubblica che si sta dotando di nuove antenne per funzionare meglio. Sono la Repubblica che diventa trasparente e responsabile. E i tanti innovatori nella pubblica amministrazione non sono più dei soldatini giapponesi solitari, asserragliati su isole dimenticate in un oceano di inefficienza. Sono un movimento, sparso ma coeso, fatto da persone che ormai si riconoscono anche senza conoscersi, perché sanno di poter contare su una condivisione di metodi e di valori.
Sono persone che ogni giorno soffrono, perché si soffre nella pubblica amministrazione, ma che ogni giorno si offrono perché credono che una rivoluzione, per quanto difficile, sia pronta ad avvenire anche nei corridoi dei ministeri, anche nelle scuole, anche negli ospedali, negli uffici pubblici di questo Paese. Una rivoluzione fatta di trasparenza e uso dei dati, di tecnologia e di capacità di coinvolgere le comunità nel policy making. Di onestà e di semplicità.
Ecco, RENA chiede alle comunità del cambiamento di prendersi sulle spalle il Paese. Di non accontentarsi di essere diverse dalla media, ma di lavorare insieme per alzare la media del nostro Paese. Di essere ambiziosi e responsabili, e di capire che il momento di farlo è adesso o mai più.
Non è una semplice chiamata alle armi. È una strategia dettagliata, che RENA ha incubato negli ultimi 9 mesi, con l’aiuto di molti di voi. E che ora siamo pronti a mettere in pratica, per diventare il movimento che attiva e mobilita le comunità del cambiamento nel Paese. Non un partito, un criptopartito o un proto partito. Niente affatto. Noi come voi giochiamo dal lato della domanda di buona politica, non dal lato dell’offerta.
E vogliamo farlo con azioni molto concrete e misurabili, che stanno scritte nel documento che approveremo domani. Ma in generale le cose che RENA vi propone di fare insieme sono quattro.
Primo, Identificazione e identità delle comunità. All’identificazione ci lavoriamo da anni: l’abbiamo fatto con la caccia dei pionieri e non ci fermeremo. Per costruire l’identità comune tra di noi iniziamo a lavorare ora e speriamo non ci voglia un secolo. Ma una cosa è certa. Le comunità del cambiamento nascono nei territori, e RENA inizierà a radicarsi nei territori, per lavorare insieme a voi. Stiamo aprendo i nostri gruppi locali – le chiamiamo antenne – in tante città del nostro paese. E ci stiamo accorgendo dell’enorme potenzialità che c’è nel trovare alleati sul territorio.
Secondo, Formazione ed educazione reciproca delle comunità. Lo facciamo con la nostra Summer School, ma non solo. La formazione avviene in maniera reciproca: ogni comunità del cambiamento ha molto da insegnare e da imparare, a partire dallo scambio di esperienze di oggi pomeriggio.
La domanda di cambiamento che nasce dalle nostre comunità deve essere una domanda educata e competente. Altrimenti è meglio rimanere in silenzio.
Terzo, Accelerazione. Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti in un continente di 800 milioni di persone, in un mondo di sei miliardi che cambia alla velocità del pensiero. Dobbiamo aumentare l’impatto del nostro cambiamento, e accelerarne il ritmo.
RENA deve lavorare per trovare schemi di finanziamento e sostenitori nuovi per le comunità del cambiamento. È importante che ci attrezziamo perché risorse finanziarie, umane, comunicative intervengano ad aiutare la crescita delle comunità del cambiamento.
E poi, dopo identificazione, formazione, accelerazione, c’è la mobilitazione vera e propria.
E su questo punto bisogna dire due cose sul rapporto tra politica e società. Per due-tre anni nel nostro Paese si è aperta una finestra che avrebbe dovuto consentire ai “tecnici”, agli “esperti”, di entrare direttamente nell’agenda politica, rispondendo all’antipolitica con la “non politica”. Quella finestra si sta rapidamente richiudendo e la politica sta provando a riprendere il suo posto. Questo è un bene.
Ma questo non significa che tutto torna come prima, al contrario: perché questa mutazione non vada perduta, serve ancora un lavoro titanico di mobilitazione di nuove constituency, che creino e alimentino continuamente la DOMANDA di cambiamento. Una domanda che la politica non può alimentare da sola.
Queste nuove constituency devono imparare a interloquire con la politica, lavorarci insieme, coprogettare con essa, portare sul tavolo i temi e le sensibilità nuove del Paese, che non sono ancora mappate e rappresentate da nessuno.
C’è dunque bisogno di qualcosa che abbia le antenne per capire cosa cambia nel paese sotto le ceneri della crisi, quali nuovi modi di fare e di stare insieme, quali nuovi valori si imporranno in Italia.
C’è bisogno di voi. È questo che chiamiamo “mobilitazione delle comunità del cambiamento”. Per farlo serve prepararsi, studiare, esercitarsi, per davvero. Servono metodo e contenuti.
Dobbiamo diventare i campioni nazionali delle pratiche di innovazione civica di cui parleremo oggi, a contribuire a diffonderle, a farle diventare la regola nel Paese.
A farli diventare i temi che non si possono ignorare, su ogni tavolo. A farli diventare priorità. A farli diventare scelte irreversibili.
In tanti parlano di selezione della classe dirigente. Noi vogliamo formarla, darle gli strumenti e gli anticorpi per fare la differenza. È questa la sfida che vi lanciamo oggi.
Un’ultima cosa. Tutto quello che vi ho raccontato non nasce da una teoria, né avviene per natura come le stagioni e gli acquazzoni. No, nasce dalle scelte piccole e grandi di centinaia di persone.
Di fronte alle quali io dopo sette anni continuo a stupirmi come un bambino. Mi stupisco di chi dice “non parto, resto ancora qualche anno” per provare a raddrizzare le cose.
Mi stupisce chi dice “lascio il lavoro, faccio RENA”.
Mi stupisce chi la sera a mezzanotte si telefona non per parlare di calcio o d’amore, ma di trasparenza e responsabilità.
E allora direi che la cosa migliore da fare oggi è questa: continuiamo a nutrirci di stupore. Lo dobbiamo al nostro Paese, e anche a noi stessi.
(Intervento di apertura del primo Festival delle Comunità del Cambiamento, Bologna, 14 giugno 2014)