Nel febbraio del 1941 George Orwell scrisse un breve pamphlet intitolato The Lion and the Unicorn: Socialism and the English Genius. Il libello si apriva con una cruda osservazione. Orwell diceva “mentre scrivo, essere umani profondamente civilizzati volano sopra la mia testa cercando di ammazzarmi” e di lì proseguiva con una lunga argomentazione riguardo l’identità e lo stato di salute della società inglese per concludere con la proposta di un programma politico in sei punti che lo scrittore riteneva essenziale per fermare l’attacco nazista e vincere la guerra.
Per Orwell la costruzione di un nuovo patto sociale, che stabilisse un certo equilibrio tra i ricchi e i poveri, migliorasse e aprisse il sistema educativo, e mettesse alla guida del Paese i più capaci e i più meritevoli, era l’unica maniera per uscire salvi dal conflitto. Solo una guerra resa rivoluzionaria e che fosse in grado di indicare agli operai e ai lavoratori della classi più basse e medie un futuro desiderabile poteva generare le energie fisiche e morali necessarie per gestire il conflitto e indurre le masse, il popolo, la gente, i cittadini ad accettare i sacrifici che questo inevitabilmente comportava.
C’era bisogno di capire che gli sforzi richiesti non fossero in ragione di un vago patriottismo e nemmeno utili semplicemente a salvare la pelle. Gli inglesi avevano bisogno di sapere che all’indomani della guerra sarebbero vissuti in un mondo diverso, in cui la monarchia e i giudici con la parrucca probabilmente sarebbero ancora esistiti, ma fosse possibile puntare sull’educazione e sull’onesto lavoro per migliorare la propria posizione sociale e non ci fosse ragione di invidiare i pochi ricchi il cui stile di vita sembrava irraggiungibile. Un mondo in cui tutti si potessero veramente dire parte di uno sforzo collettivo coerente volto a costruire un mondo più giusto, per tutti.
Per andare in guerra serviva credere nella Patria. Per credere nella Patria serviva sentirsi simili ai propri connazionali e questo non era possibile fintanto che la maggioranza fosse costretta a spaccarsi la schiena per mangiare e pochi ricchi vivessero in condizioni difficili da immaginare per i primi. Serviva sentirsi simili ai propri leader e questo non era possibile fino a quando le posizioni di comando fossero riservate a pochi e corrotti privilegiati. Serviva potersi fidare gli uni degli altri e la fiducia per crescere ha bisogno di essere nutrita da gesti e simboli e da azioni concrete.
Dimentichiamo la guerra, dimentichiamo il Regno Unito e la Union Jack. Mettiamo da parte i punti del programma relativi all’Impero e anche quello relativo alle nazionalizzazioni perché altrimenti rischiamo che qualcuno si distragga, perdendosi in critiche fuori luogo e non colga il punto, la ragione per cui è utile oggi andare a ripescare un breve saggio scritto più di settanta anni fa per un pubblico esclusivamente inglese. E prima di arrivare al punto apriamo un’altra parentesi.
Il caso vuole, infatti, che dopo aver finito di leggere il saggio di Orwell mi sia capitato di vedere Gli equilibristi di Ivano De Matteo. Il film non è un capolavoro, ma è di sicuro un’accurata e credibile narrazione di quello che potrebbe succedere a qualsiasi normale famiglia italiana. La storia si trascina per quasi due ore lasciando lo spettatore esausto. Guardando il film si ha la sensazione che non ci sia via d’uscita, che per il protagonista non esista un modo per continuare a mantenere la propria famiglia se non rinunciando alla propria dignità e cercando rifugio in una solitudine di vergogna anticamera del suicidio. Ed è probabile che le cose stiano effettivamente così. E finalmente il punto.
Come è normale, noi viviamo e la vita fa i suoi collegamenti e a me è parso naturale, già durante i titoli di coda del film, pensare che Orwell e De Matteo si sarebbero trovati d’accordo, tanto sulla guerra, quanto sulla crisi economica europea ed italiana. Di fronte ad una birra, in pub londinese, i due si sarebbero guardati e si sarebbero detti: “Così non si va da nessuna parte. Se non capiamo che alla gente bisogna dire perché bisogna fare sacrifici, se alla gente non si spiega che non è solo questione di salvarsi la pelle, ma anche di costruire un mondo diverso, in cui non siano giustificabili le ragioni che ci hanno portato al collasso, qui mollano tutti la barca e la lasciano affondare”.
Oggi dalla sua Orwell avrebbe ragione di aggiungere che in effetti la guerra fu vinta perché ad un certo punto si capì che andavano gettate le basi del welfare state inglese. Senza dubbio lo farebbe notare al regista italiano, e poi chioserebbe: “E gli italiani? In cosa credono gli italiani? Perché dovrebbero continuare a fare sacrifici? Per chi? Per cosa?”.