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L’Italia è alla ricerca di un Barack Obama italiano.* All’indomani della vittoria del primo afro-americano in un’elezione presidenziale americana, politici italiani di ogni fede, la società civile, i media e l’opinione pubblica hanno reclamato con veemenza la necessità di un’ondata di speranza e cambiamento anche per la nostra penisola.
Purtroppo il vento del cambiamento non soffia sull’Italia, un paese affetto da lentezze burocratiche[//], scandali e una scarsa propensione all’innovazione. Anche ammesso che si riuscisse a trovare un Obama italiano, un tale individuo da solo non riuscirebbe a ridare speranza e intraprendere le riforme e le trasformazioni necessarie a un paese immobile da decenni e resistente al cambiamento. In poche parole, l’Italia non è pronta per un leader come Obama.
Il Belpaese è assediato da problemi strutturali, che hanno bisogno di risposte e soluzioni strutturali. La ricerca di una leadership come quella rappresentata da Obama – giovane, competente e capace di unire una società frammentata e abbattuta – è possibile solo a condizione che si avvii una strategia innovativa per il reclutamento e il cosiddetto ”empowerment” delle nuove generazioni.
Il rinnovamento della leadership può essere realizzato soltanto attraverso un approccio inclusivo e inter-generazionale al potere. Purtroppo, il sistema italiano – per non parlare della sua attempata classe dirigente – è ostile a questi concetti. Esso rifiuta qualsiasi meccanismo di rigenerazione rendendo l’eventuale ascesa di una figura come quella del neo-presidente americano insufficiente a risanare il paese.
L’avvento di un nuovo leader sarebbe un inutile spreco nel momento in cui manca un’intera generazione di giovani consiglieri e riformatori aperti al cambiamento necessari a dare consistenza all’azione di governo e promuovere una nuova stagione di politiche pubbliche. Chi è predisposto alla creatività e aperto al cambiamento viene messo alla porta oppure è costretto a emigrare. Un rapporto promosso dalla Fondazione Migrantes ha dimostrato che oltre la metà dei 4 milioni di italiani che vivono regolarmente all’estero ha meno di 35 anni. I giovani professionisti e i ricercatori in particolare rappresentano la colonna portante della diaspora italiana.
I settori della ricerca, delle infrastrutture e dell’energia soffrono di problemi riconducibili alle stesse cause.
Le università continuano a chiedere maggiori fondi ma allo stesso tempo sono incapaci di farne un buon uso a causa delle incoerenze burocratiche, delle lacune strutturali di cui soffre un sistema dell’istruzione in affanno a causa dell’assenza di meccanismi di valutazione e ottimizzazione delle risorse.
Nel dicembre del 2008, a Torino durante una conferenza sulle potenzialità del cosiddetto “cloud computing” – l’uso di internet come piattaforma di sviluppo tecnologico – un partecipante ha sarcasticamente chiesto ‘come si pensasse di far funzionare una piattaforma internet 2.0 in un’Italia 0.0’ dove il tasso di penetrazione della banda larga è ancora sotto il 10%. Un giovane imprenditore di una start-up, anch’egli presente alla conferenza, ha raccontato che il nuovo software che era riuscito a produrre è stato rifiutato dai rivenditori poiché ritenuto ‘troppo innovativo per il mercato italiano’. Alla fine l’imprenditore, pur di riuscire a vendere il prodotto, si è visto costretto a ridurre il livello di innovazione tecnologica del software.
Proprio come non ha alcun senso far viaggiare dei treni ad alta velocità su binari lenti, ha altrettanto poco senso avere un leader del 21° secolo come Barack Obama in un sistema politico del 20° secolo come quello italiano.
Le riforme e le trasformazioni sistemiche non possono essere ritardate in attesa dell’arrivo di un profeta politico. Bisogna passare il testimone a quegli “agenti del cambiamento” capaci di innovare tanto i contenuti quanto i metodi. Le loro voci devono essere ascoltate, i rappresentati messi in collegamento tra di loro e con i problemi del paese in maniera tale che l’aggregato possa produrre una trasformazione generale e non degli sforzi isolati.
In realtà un metodo nuovo ha già preso piede. Esso fa perno su alcuni ideali come l’innovazione audace, la lungimiranza, il pragmatismo, e l’inclusione. Nozioni e modi di pensare che i giovani professionisti e ricercatori italiani con solide esperienze all’estero – in particolare in Europa e negli Stati Uniti – hanno messo in atto per decenni.
Il cambiamento non potrà mai venire dall’esterno. Ma il cambiamento può scaturire dalle esperienze degli italiani che hanno imparato molto fuori dall’Italia e da tempo hanno voglia di dare un contributo al paese. Essi sono stanchi di essere esclusi, sono risoluti dinanzi alle avversità, ma avversi all’antagonismo tra generazioni poiché sono accesi sostenitori della collaborazione intergenerazionale e della meritocrazia. Brandiscono la spada della non-appartenenza e dell’indipendenza dai “warlords” della politica italiana, dell’accademia, dell’economia, e dei media nazionali in attesa che arrivi il tanto atteso momento di tornare a casa.
C’è chi sostiene che la crisi economica globale senza precedenti che ci ha investito lascia pochi margini di manovra per attuare delle riforme e dei cambiamenti radicali. Tuttavia la storia ha dimostrato l’esatto contrario. Come suggerito dall’ultimo rapporto del CENSIS, l’attuale crisi economica globale avrà pur creato una “situazione di panico collettivo” ma essa ha anche seminato il seme della speranza in una “trasformazione epocale” simile a quella realizzata nel secondo dopoguerra che appare l’unica via d’uscita percorribile. Ammesso che si faccia spazio a una nuova leadership collettiva.

* Traduzione dall’inglese dell’articolo “Italy: No Country For Young Men” scritto da Alessandro Fusacchia e Fabio Oliva e apparso su The Huffington Post il 27 gennaio 2009. L’originale è accessibile cliccando qui.

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