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Fonte: http://www.flickr.com/photos/pietroizzo

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Sì, viviamo nella società iperconnessa. Sì, se state andando a lavarvi i denti vi sentite in colpa nei confronti dei vostri followers e dunque li informate seduta stante della marca di filo interdentale che state usando (criticandola con un hashtag davanti, se siete proprio fighi). Sì, il vostro rapporto sentimentale sta saltando perché il vostro partner si lamenta del fatto che in camera da letto dedicate più tempo alle chat di gruppo di Whatsapp che ai preliminari (proprio lui, che ieri sera aveva fatto l’ultimo accesso alle 3,50 del mattino). Ma in cambio, in fondo, avete un bel po’ di risvolti positivi. Ad esempio? Beh, potete lavorare da casa, e gestire così la vostra vita privata in maniera sensibilmente più efficiente.

Quasi vero. O meglio, vero per percentuali anche consistenti di professionisti all’estero: in Olanda, Finlandia e Svezia, che ci siamo ormai stufati di citare come esempi di best-practice in qualsiasi contesto welfare, siamo arrivati ormai ad un lavoratore su 3, ma anche Germania, UK e Danimarca si attestano su livelli intorno al 20%. Ma quando si parla dei paesi mediterranei (Francia, Spagna ed Italia), a stento si supera la soglia del 5%.

E pensare che il telelavoro – quella prassi per cui si può esercitare la propria professione ovunque nel globo terrestre, a fronte di obiettivi e risultati tangibili – farebbe risparmiare in primis le imprese, poi i dipendenti ma in generale la società tutta. Gli studi più completi al riguardo provengono dagli Stati Uniti, dove il telelavoro ha ricevuto lo sdoganamento definitivo dalla bolla papale dell’US Telework enhancement act, placet di Obama datato 2010 che è servito ad inquadrare le regole generali di un settore troppo spesso lasciato alla libera interpretazione di imprenditori ed aziende, pubbliche o private che siano.

Nello “State of Telework in the US”, la Telework Research Network ha provato a quantificare i benefici reali e potenziali di un’estensione su larga scala di questo approccio al mondo del lavoro che la tecnologia avrebbe già abilitato da decenni. Ecco le loro principali scoperte:

  • circa il 45% della forza lavoro attiva negli States esercita una professione che sarebbe compatibile con il telelavoro
  • i 2,9 milioni di telelavoratori attualmente attivi negli USA fanno risparmiare 390 milioni di galloni (circa 1 miliardo e mezzo di litri) di benzina all’anno, che si traducono in 3,6 milioni di tonnellate di gas serra in meno introdotte nell’ambiente
  • se tutti quelli che posseggono una professione compatibile col telelavoro la esercitassero davvero in remoto per 2 giorni e mezzo la settimana (la media di chi già lo fa), il risparmio sarebbe l’equivalente di togliere l’intero traffico di New York dalle strade per un anno
  • il risparmio nazionale sarebbe di 900 milioni di dollari l’anno: quanto basterebbe per ridurre le importazioni dal Golfo Persico del 46%
  • l’energia risparmiata avrebbe un impatto maggiore di tutte le fonti di energia alternativa attualmente attivate sul suolo americano

Spulciando l’analisi più nel dettaglio, si scopre che il telelavoratore americano medio ha 49 anni, è diplomato, ha un ruolo specialista o manageriale, non è iscritto ai sindacati e guadagna in media 58.000 dollari l’anno in un’azienda con più di 100 dipendenti (le grandi imprese sono più inclini a permettere il telelavoro delle piccole-medie). Lo studio si conclude con un assunto che è forse ancora più vero nel nostro paese: la più grande barriera attuale al telelavoro non è certo tecnologica, ma è la paura e la mancanza di fiducia da parte dei manager, incapaci di gestire la transizione verso un lavoro veramente flessibile.

Eppure, nel XXI secolo il superamento di questo limite culturale e di visione è argomento quantomai strategico. Cerchiamo qui di sintetizzarne i perché, prima su scala globale e poi scendendo a volo d’uccello sul contesto nazionale.

Il 2007 ha visto segnare l’ormai famoso quanto simbolico superamento della popolazione urbana su quella rurale: le megalopoli nascono a ritmi vertiginosi, specie nei paesi emergenti, in Africa, Asia ed America Latina, ridisegnando la geografia demografica mondiale e ponendo nuovi ingenti problemi di traffico, inquinamento e vivibilità, dagli slum di Mumbai e Jakarta fino alle township di Johannesburg e le favelas di Rio.

In misura sicuramente minore, ma anche l’Italia ha vissuto questo fenomeno di polarizzazione verso alcuni grandi centri di gravità: l’hinterland milanese, e più latamente l’ex triangolo industriale del nord, così come l’agglomerazione della conurbazione urbana attorno alla capitale Roma sta ponendo seri interrogativi rispetto allo sviluppo e alla sostenibilità di questi fenomeni, laddove le città di provincia vanno svuotandosi di laureati che rimpinzano le metropoli facendone schizzare i prezzi immobiliari. Non è certo un caso, d’altronde, che anche l’agenda digitale inizialmente suggerita da Passera puntasse proprio sulla costruzione di una Silicon Valley del Mezzogiorno, per rispondere alla fuga di cervelli e ri-bilanciare le disparità di una Questione Meridionale che non ha in fondo perso nulla della sua drammaticità da quando il termine fu coniato.

Ecco, crediamo che il telelavoro possa svolgere moltissimo di questo lavoro, in maniera del tutto spontanea ed endemica. E dato che, in Italia, nessuno ha mai osato ipotizzare un’analisi di quest’opportunità, proviamo a farlo noi, seppur con tutte le difficoltà del caso nel reperire informazioni, giocando con previsioni e stime a partire dai dati disponibili.

Primo: quanti sono i lavoratori dipendenti. Quelli pubblici, al 2011 risultano 3 milioni 247mila. Per quelli privati è più complicato avere una stima, ma l’ordine di grandezza è intorno ai 10 milioni, al netto di quelli con partita Iva aperta. Il totale, fa una forza lavoro che si aggira sui 14 milioni di dipendenti. Applicando lo stesso tasso di “eleggibilità” al telelavoro utilizzato nello studio americano (45%), arriviamo a dedurre che esiste un universo potenziale di più di 6 milioni di lavoratori che potrebbero esercitare la loro professione in remoto.

Le statistiche attuali sull’esercito dei telelavoratori parlano di una popolazione che a stento raggiunge il milione di dipendenti. Esistono dunque margini enormi di miglioramento, perché se quei 5 milioni di potenziali telelavoratori mancanti all’appello potessero scegliere liberamente dove vivere, è probabile che la “bilancia commerciale” interna del nostro Paese ri-sposterebbe la demografia verso Sud, o comunque verso i piccoli centri che vanno via via scomparendo, con una controcorrente migratoria che riporterebbe in maniera completamente naturale le risorse ai loro luoghi natii.

E nemmeno la scusa del gap infrastrutturale, a questo punto, reggerebbe più: anche per i nuovi “eremiti volontari di ritorno”, la soluzione che by-passa la fibra ottica è già esistente, ed ha un nome: LTE. Una tecnologia che passa per la rete cellulare, come d’altronde è già successo in Africa, dove la connessione alla rete avviene quasi esclusivamente in modalità mobile. Gli operatori del mercato, che ne hanno compreso le potenzialità, sono già da tempo in corsa per accaparrarsene i diritti.

Perché l’innovazione del Bel Paese verso una maggiore efficienza non può che passare dalla qualità della vita. Che per molti italiani, essenzialmente, è sinonimo semplicemente di ritorno alle origini.

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