Discussione a “Montiamoci la testa“, Bertinoro, 13-14 novembre 2010.
Il corpo docente che nel 1990 era il più giovane nei paesi del G8 è ora il più anziano, e se è necessario nel paese un rinnovamento della classe dirigente questo non può non avvenire anche (e soprattutto) a partire da una delle istituzioni da tutti (almeno a parole) riconosciuta come elemento trainante delle società contemporanee e cioè l’Università, sede della produzione e della trasmissione del sapere, per sua natura al centro della società della conoscenza che si dice di voler costruire.
Nel mese di luglio 2010, apparve sui quotidiani una proposta bi-partisan, molto semplice, consistente nel portare l’età pensionabile di tutti i docenti universitari a 65 anni (come in Francia). Fu notevolmente pronta e chiara la risposta di quei (pochi) universitari con possibilità di esprimersi attraverso i mezzi di comunicazione: si schierarono tutti contro l’ipotesi ventilata, che non arrivò neanche a trasformarsi in disegno di legge.
L’abbassamento dell’età pensionabile risponde (almeno) a 2 esigenze reali e (a parole) largamente condivise:
1) la diminuzione della spesa delle singole università per gli stipendi (anche se questo porta ad un aggravio di spesa pensionistica) e quindi la possibilità di utilizzare questi stessi fondi per il reclutamento;
2) il rinnovamento della classe docente (ed in particolare dei vertici degli Atenei, quasi sempre occupati esclusivamente da ultrasessantenni).
L’obiezione che fu mossa da chi prese la parola sui quotidiani (naturalmente ultrasessantacinquenne) fu che tanti docenti con più di 65 anni sono tuttora attivi nella ricerca e nella didattica e che sarebbe stato un crimine privare l’Università di tanta competenza. Fu anche scritto che un tale provvedimento sarebbe stato antimeritocratico (tutti vanno in pensione a 65 anni senza discriminare chi lavora da chi invece è improduttivo), ed infine che i problemi dell’Università italiana sono “ben altri”. In nessun caso fu scritto che c’è un vero problema nell’attuale governance degli Atenei (così come in tanti altri settori della società italiana), e che forse bisognava prenderne atto e cercare soluzioni concrete, anche se non si condivideva quella proposta. Non sembra un’ipotesi peregrina che la violenza della reazione sia da ascrivere alla autoreferenzialità di chi scriveva (e più generalmente dell’attuale classe dirigente del paese).
E’ verissimo che i più giovani dovrebbero dedicare l’essenziale delle loro energie alla ricerca, ma non possiamo ignorare che viviamo ormai in uno stato di emergenza, con una Università immobile che ha assoluto bisogno di persone nuove ai suoi vertici, persone che riescano ad immaginare nuove strategie, che siano capaci di promuovere nuove pratiche (sperabilmente più virtuose) e che sappiano aprire la strada ai giovani migliori. L’imposizione di regole dall’alto (come le “quote”) è sempre da utilizzare con moderazione e solo in assenza di soluzioni migliori, ma nella fattispecie sembra assolutamente necessaria una spinta esterna che favorisca questo rinnovamento.
Nel dibattito “Montiamoci la testa!” a Bertinoro, l’esigenza di un rinnovo dei vertici delle università italiane è stata largamente condivisa da tutti i membri del gruppo di lavoro “dare concretezza al merito”. Nel condividere d’altra parte anche l’esigenza di non privarsi di forze utili nella ricerca e nella didattica, si è sottolineata la necessità (quando si dovesse decidere per il pensionamento a 65 anni) di prevedere la possibilità di stipulare contratti di insegnamento e di ricerca ben remunerati con docenti ultrasessantacinquenni in pensione. In ogni caso il gruppo ha sottolineato l’urgenza di una riflessione su questa questione.
E’ emersa anche una prima proposta concreta per dare spazio alle nuove generazioni, senza toccare la delicata e complessa materia pensionistica. Si propone di limitare a 60 anni l’età per potersi candidare a ricoprire cariche monocratiche (rettore, preside di facolà, direttore di dipartimento, presidente di collegio didattico, ecc…), e di escludere i docenti ultrasessantenni dalle commissioni di concorso. Il gruppo ha ritenuto plausibile che questo, senza avere nell’immediato alcuna ripercussione sulla ripartizione dei fondi, porterebbe nel breve-medio termine ad un cambio di stile nella gestione degli Atenei e nel reclutamento.
Foto: Palazzo dell’Università – Catania (Jose Dueñas)