Guida minima allo stato di usura dello Stivale, e del mondo in cui si trova costretto a scalciare.
“L’avvenire non è scritto, e niente ci permette di predirlo”. Attacca così Virginie Raisson nel suo ambizioso ed affascinante “2033: Atlante dei futuri del mondo”, mirabile opera che unisce puntuali infografiche a commenti mai solo a fini didascalici. Ma è anche vero, sostiene la ricercatrice francese, che ci sono indicatori e forze in gioco che fanno prefigurare scenari più verosimili di altri.
Il contesto globale è quello di un mondo che sta esaurendo le sue risorse. Desertificazioni diffuse, innalzamento dei mari con conseguente cancellazione di estese aree costiere, perfino il grande problema dell’accesso all’acqua potabile sono tematiche che hanno spostato il loro orizzonte temporale non più sulla scala dei secoli, ma dei decenni. I diamanti dovrebbero esaurirsi entro i prossimi 4 anni, ma soprattutto, nei prossimi 15, all’attuale tasso di consumo avremo finito le nostre riserve di giacimenti di ferro e rame. Il riciclo non sarà più un’opzione, a quel punto, ma una necessità cogente che si farà virtù.
Ciononostante, la capacità di produrre ricchezza nel mondo continuerà ad aumentare a ritmi vertiginosi. E non solo per ragioni demografiche – arriveremo ad essere 9 miliardi entro metà secolo, per poi stabilizzarci: ma prolificità e ricchezza pro-capite sono legate da un rapporto inversamente proporzionale, e questo sarà il problema maggiore.
Si può discutere di quanto il PIL, questa grande calcolatrice che riesce solo a fare somme, ma mai sottrazioni, sia ancora un indicatore capace di misurare davvero la produttività del Paese. Se è vero che lì dentro le spese mediche di guarigione di malati di cancro e gli investimenti militari sono contabilizzate col segno “+” esattamente come quelle per la ricerca e lo sviluppo, è altresì vero che le attuali alternative – i famosi “indicatori della felicità prodotta” o quelli legati al benessere – non hanno ancora trovato un modo di strutturarsi credibile a sufficienza per proporsi come alternativa.
Ecco perché è ancora di lì che partiamo. E quello che ci dicono gli indicatori è che il G8, così come lo conosciamo, non esiste più. L’Italia ne è fuori, dati alla mano, già da qualche anno: ad oggi, a parità di potere d’acquisto, è la decima economia mondiale (fonte: World Bank 2011), con un’economia che cuba per poco meno di 2mila miliardi di dollari annui. Davanti a noi tutti i famosi BRIC, ma non solo: nell’ordine, Usa, Cina, India, Giappone, Germania, Russia, Brasile, Francia e Regno Unito, mentre subito dietro scalpita il Messico.
Se si guarda ai trend di crescita nel mondo, è evidente come la Recessione sia un argomento che in realtà riguarda solo il Vecchio Continente: se l’economia del Bel Paese, in compagnia di svariate altre vicine di casa, va contraendosi di anno in anno, quella dei paesi asiatici (Mongolia e Turkmenistan, oltre alle solite Cina ed India) ed africani (guidati dal Mozambico, ma soprattutto dalla Nigeria e l’Arabia Saudita) galoppa a ritmi di crescita spaventosi. È sulla base di questo scenario che la Price Waterhouse Cooper disegna le sue previsioni della nuova classifica tra 20 e 40 anni: una proiezione che, sebbene ci accrediti di una crescita aggregata di quasi il 30% di qui al 2030, ci vede scavalcati dapprima proprio dal Messico, ma anche dalla Turchia e dalla sorprendente Indonesia, il paese musulmano più grande del mondo.
Fino ad arrivare all’annus domini 2050, in cui, secondo la classifica aggiornata, persino la Nigeria, la cui economia basata esclusivamente sul petrolio vale ora circa un ottavo di quella italica, sarà destinata a sorpassarci, se saprà mettere a sistema le sue gravi lacune sul piano di sviluppo umano ed urbano.
Cosa possa significare per la vita quotidiana degli italiani questa retrocessione, almeno relativa, è difficile dirlo. Negli ultimi tempi, con il tasso di disoccupazione che ha superato l’11% sostanzialmente per la prima volta dopo gli anni del Miracolo economico, in tanti si sono chiesti perché in Italia non abbiamo avuto ancora una piazza Tahrir – ma nemmeno una piazza Syntagma come ad Atene o una Puerta del Sol come per gli indignados spagnoli. Una possibile risposta può stare ancora una volta nei numeri: gli stati in cui ci sono state sommosse rilevanti – le più famose delle quali sono state sicuramente quelle etichettate più o meno propriamente come “primavera araba” – abitano tutte la seconda metà della classifica dei paesi per Pil pro capite (eccezion fatta del Bahrain, ma a Manama i problemi sono sociali ancor prima che economici).
In questa graduatoria, l’Italia risulta al 29° posto benché superata, nel 2011, anche dalla Spagna (ma ci si aspetta un controsorpasso nei dati 2012, non ancora consolidati). Una posizione che garantisce evidentemente che la popolazione non sia ancora sufficientemente esasperata da apparecchiare ghigliottine in mezzo ai centri commerciali. Anche perché in Grecia ed in Spagna il tasso di disoccupazione è giunto rispettivamente al 27% ed al 26,2% (in Germania è del 5,3%, la media eurozona è in linea con quella italiana), percentuali che in Italia porterebbero velocemente a qualcosa di più di un semplice voto di protesta.
Quello che preoccupa a livello economico su scala temporale decisamente più di breve termine, nel caos dionisiaco dell’immediato post-elezioni, è il famoso andamento dello spread, strumento con cui ci siamo abituati negli ultimi anni a misurare le azioni e la credibilità dei nostri attori politici.
Lo spread è un indicatore che misura la differenza tra il rendimento di un titolo di stato di riferimento: in Europa, il titolo di riferimento è quello della locomotiva tedesca – poteva essere diversamente? – il Bund, appunto. Ciò non toglie che al mondo esistano paesi ancora più solidi, dove indebitarsi costa ancora meno: il Giappone avrebbe uno spread addirittura negativo, in quanto considerato un paese a probabilità di fallimento ancora inferiori rispetto alla Germania.
Esattamente al contrario di quanto sostiene Berlusconi, cui fa gioco annegare il Paese in una stagnante inconsapevolezza ed abbassare il livello della discussione allo status di discussione da bar – IMU/non IMU – quest’indicatore bizzarro ha un impatto tangibile sulla vita delle persone. Inficiando la capacità delle piccole e grandi imprese di indebitarsi, in maniera non poi così indiretta, ha ripercussioni sulla capacità delle aziende stesse di assumere, così come più direttamente sulla probabilità che il mutuo che andiamo a richiedere in banca venga accettato, ed a quale tasso.
Maggiore è l’incertezza politica, e la conseguente fiducia nei confronti di un Paese, più questo differenziale sale: ecco perché è fondamentale sbloccare la situazione di stallo post-elettorale il prima possibile. Perché una variabile di questo tipo, con la frenesia attuale dei mercati globali, può portare in tempi veramente ristrettissimi ad innalzamenti tali da creare spirali negative capaci di destabilizzare un Paese nell’arco di settimane, con buona pace delle previsioni di ampio respiro. Ed ecco perché tutta l’Europa – ed il mondo – guarda a questa nostra anomalia curiosa talvolta rispettandola come un grande laboratorio di democrazia, talaltra irridendone le radici, ma in ogni caso sempre con grande apprensione: perché una crisi grave della terza economia del Vecchio Continente porterebbe ad una contaminazione dei mercati e ad un peggioramento violento della Crisi in tutta l’area economica europea. Una partita che non si può perdere, perché una volta capito dove siamo, si possa ancora decidere di propria sponte dove provare ad andare.
Per dimensioni e sistema sociale non siamo il Belgio del 2010 – qui, si parlerebbe di un Dirupo ben diverso, verso cui andremmo incontro. Ritardi minimi possono far scrivere il nostro avvenire ad altri: ecco, finalmente, una cosa estremamente facile da predire.