“La crescita del 21esimo secolo sarà verde. Di fronte al petrolio caro, la chiave del successo risiede nella creatività, la ricerca e sviluppo e l’innovazione. […] In mancanza di petrolio, tiriamo fuori – di nuovo – delle idee!” non sono le dichiarazioni del presidente di Greenpeace, ma del Ministro dell’Industria francese, Luc Chatel, in una lettera ai concittadini attraverso il principale quotidiano nazionale qualche mese fa-, quando il prezzo del petrolio era alle stelle e una crisi energetica all’orizzonte. [//]
Nel quadro dei negoziati sul pacchetto di norme europee per la lotta ai cambiamenti climatici e per le energie rinnovabili il Ministro degli Esteri italiano, nel giustificare l’opposizione del governo alle proposte europee, sottolinea come l’Italia abbia «alcune red-lines: in primo luogo la difesa di alcuni settori dell’industria manifatturiera».
Due modi di analizzare la realtà, due punti di vista differenti sul modo di affrontare le sfide ambientali ed energetiche alle quali ogni paese europeo oggi si trova di fronte e sulle risposte da dare ai propri cittadini. E soprattutto due modi antitetici di guardare al futuro: fiducia nelle occasioni di cambiamento contro difesa dello status quo.
La difesa dello status quo è la principale fonte di immobilità dell’Italia. Si investe poco nella ricerca, nell’innovazione, nella scuola e nella formazione. Insomma, in quei settori che sono alla base dell’innovazione e del cambiamento. C’è un’incapacità diffusa di trasformare le limitazioni imposte dal contesto in fonte di novità, di progresso. Come non intuire che il futuro dell’Europa è sempre di più verso un modello di sviluppo a basso impatto ambientale, a basso consumo di risorse ed energia, ad alto tasso d’innovazione e di conoscenza, ad alto valore aggiunto ed alta qualità di vita per i cittadini?
Lo stesso sistema industriale italiano, guidato dalle strategie di Confindustria, è caratterizzato dalla difesa di alcuni settori maturi invece che dall’investimento nell’eco-innovazione, o semplicemente in nuove tecnologie o in nuovi prodotti. Spesso per mancanza di visione strategica si copiano modelli di sviluppo stranieri o del passato invece che puntare sulla creatività, sulle risorse e le peculiarità del paese, valorizzando le idee nuove provenienti da realtà locali particolarmente attive da esportare in seguito. In Italia esistono piccole e medie imprese che hanno sviluppato tecnologie ambientali di punta ma che hanno difficoltà a raggiungere il mercato a causa della struttura immobile della burocrazia statale e della grande industria.
Le Nazioni Unite stanno per lanciare un'”iniziativa per un’economia verde” con 150 esperti di tutto il mondo guidati dall’economista della Deutsche Bank Pavan Sukhdev per dimostrare, dati alla mano, come la protezione dell’ambiente sia un fattore di crescita e occupazione, e un elemento fondamentale di qualsiasi iniziativa di rilancio dell’economia. Il New Deal ambientale appena lanciato dalla nuova amministrazione Obama si pone in questo solco, con l’obiettivo ad esempio di 2 miliardi di dollari di risparmi pubblici grazie al miglioramento del 75% dell’efficienza energetica degli edifici federali e con vincoli stringenti sulle emissioni delle auto e di standard di efficienza dei carburanti dal 2011. “[Con questi vincoli] il nostro obiettivo non è di porre nuovi ostacoli a un’industria già in pesanti difficoltà; è di aiutare i costruttori americani a prepararsi per il futuro” ha spiegato il nuovo Presidente USA.
Dagli studi dell’economista Michael Porter della Harvard Business School emerge infatti che una legislazione ambientale severa impone efficienza nei processi industriali e incoraggia l’innovazione che a sua volta contribuisce a migliorare la competitività commerciale delle imprese (oltre a un miglioramento dell’ambiente e della qualità di vita dei cittadini). Questa è la strada che molti paesi europei stanno imboccando, scommettendo su un futuro per le proprie imprese basato su prodotti e processi a basso impatto ambientale e a grande valore aggiunto. In un’economia sempre più globalizzata e con materie prime e risorse energetiche sempre più scarse (e quindi care), le chiavi della competitività risiedono nella capacità di produrre di più con meno (meno materie prime, energia, rifiuti ed emissioni inquinanti). Ed è evidente che senza limiti e costrizioni imposte dall’esterno molto spesso il mercato da solo non riesce a produrre l’innovazione necessaria. Un esempio banale è la lampadina a incandescenza, inventata a metà dell’800. Negli ultimi 150 anni ci sono state due guerre mondiali, la bomba atomica, internet, il personal computer e l’uomo è arrivato sulla luna; e noi abbiamo continuato ad usare la stessa identica lampadina. È solo la crescita del prezzo dell’energia negli ultimi anni che ha imposto al mercato la sostituzione della lampadina a incandescenza dell’800 con le nuove lampadine a risparmio energetico e con i led (e la probabile messa al bando delle lampadine tradizionali nella UE già dal 2010).
Per la sua situazione energetica e la vulnerabilità ambientale, l’Italia dovrebbe essere il paese più interessato a questa svolta. L’importanza drammatica che ha il risparmio energetico nel nostro paese e la necessità di cambiamento di rotta sono state brillantemente sintetizzate da Gian Antonio Stella qualche settimana fa: “Compriamo all’estero l’88% dell’energia, siamo schiavi dei capricci dei padroni del gas e del petrolio e consumiamo quanto Turchia, Polonia, Romania e Austria messe insieme […]. Prendendo come unità di misura il «Megajoule» (Mj) pari a 0,025 metri cubi di metano, ogni casa svedese (col freddo che fa lassù!) consuma mediamente meno di 21 mila Mj, ogni casa irlandese poco più di 19 mila, ogni casa tedesca meno di 19 mila. Le nostre, per contro stanno oltre i 50 mila Mj.” Quale paese europeo quindi più che l’Italia dovrebbe fare del risparmio energetico (pubblico e privato) la principale battaglia per ridurre i costi, avere più energia disponibile, aumentare la competitività, e ridurre l’impatto ambientale e sul clima?
E il ruolo delle amministrazioni pubbliche è fondamentale, sia come legislatori sia come consumatori (gli appalti pubblici nella UE corrispondono al 16% del PIL!). Esistono fondi europei specifici a sostegno dell’eco-innovazione destinati alle autorità locali e alle piccole e medie imprese, oltre ai fondi strutturali comunque utilizzabili per investimenti ambientali. E sono spesso le provincie e i comuni le amministrazioni più dinamiche in questo senso, anche se in assenza di un forte impegno strategico a livello nazionale rimangono iniziative isolate invece che fare sistema. Un esempio è costituito dall’IPES (l’Istituto altoatesino dell’edilizia sociale che dispone di circa 12.000 appartamenti in Alto Adige), che si impone volontariamente dal 2003 di costruire e risanare l’edilizia sociale applicando esclusivamente i severissimi criteri ambientati e energetici internazionali di CasaClima.
Lo stesso piano europeo di ripresa economica proposto dalla Commissione UE a fine novembre insiste in modo particolare sull’innovazione e sull’ecologizzazione degli investimenti dell’Unione con l’obiettivo di: “accelerare la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. In tal modo, l’Europa sarà perfettamente in grado di attuare la sua strategia volta a limitare i cambiamenti climatici e a promuovere la sicurezza energetica, una strategia che promuoverà le nuove tecnologie, creerà nuovi posti di lavoro “verdi” e aprirà nuove opportunità su mercati mondiali in rapida espansione, manterrà entro livelli contenuti la bolletta energetica dei cittadini e delle imprese e renderà l’Europa meno dipendente dall’energia straniera.”
Dai tempi del “Gattopardo” la difesa dello status quo e degli interessi costituiti è stata un vizio nazionale, anche se nel secolo scorso non sono stati pochi i momenti in cui l’Italia è riuscita a essere all’avanguardia mondiale nell’economia, nel design, nel cinema, nell’arte.
Oggi, l’impressione è che la classe dirigente italiana (quella politica ma anche quella imprenditoriale e intellettuale) punti su un modello di crescita e sviluppo basato sui paradigmi ideologici del ventesimo secolo, piuttosto che su quelli del ventunesimo secolo che molti partner europei stanno adottando; focalizzandosi in maniera acritica sulla difesa dello status quo (anche se obsoleto) piuttosto che sull’innovazione e sui giovani che possono introdurla nei vari settori. Forse è solo necessario che coloro che credono nel cambiamento e nella forza dell’innovazione alzino la voce per far sentire le proprie argomentazioni. Forse. Ma anche questa è una prova di ottimismo e fiducia nel cambiamento.
* Le opinioni dell’autore sono espresse a titolo personale e non sono attribuibili alla Commissione europea
Approfondimenti
L’énergie chère doit être une source de croissance, par Luc Chatel, Secrétaire d’Etat chargé de l’industrie et de la consummation – LE MONDE | 24.06.08 (http://www.lemonde.fr/cgi-bin/ACHATS/acheter.cgi?offre=ARCHIVES_item=ART_ARCH_30J&objet_id=1041553)