Dall’ultima volta in cui ci siamo visti sono successe cose notevoli. Penso a Brexit, alle migrazioni, agli attacchi terroristici, agli scenari politici in bilico in USA e Europa. È successo in un solo anno, a conferma che la velocità dei fenomeni umani – che supera quella delle connessioni digitali, su cui si riflette – è una variabile da cui non possiamo prescindere nelle nostre riflessioni.
Ma tenere conto della velocità non può e non deve significare cedere al pressappochismo e alla semplificazione che ci capita di frequentare tutti i giorni.
Esiste una terza via. Lo stiamo dimostrando. Abbiamo dimostrato di saper essere veloci e complessi. Di non cedere alle soluzioni facili e di saper costruire quelle articolate e necessarie, con costanza e ritmo.
Le prime due edizioni del Festival ci sono servite a scoprire e radunare chi innova. Abbiamo coltivato aspirazioni alte e cercato nuove ispirazioni. Ci siamo chiesti quale fosse il pezzo mancante. Lo abbiamo cercato formandoci assieme. Tessuto legami nuovi e cavalcato correnti impetuose. Messo a segno una corposa opera di mappatura degli uomini e delle donne di buona innovazione.
Quest’anno dobbiamo muovere un passo in più.
Dobbiamo capire e accrescere assieme l’impatto di quello che facciamo e promuoviamo. E farlo iniziando a chiederci cosa c’è che non va. Cosa impedisce alle nostre (buone) pratiche di diventare in modo sistemico politiche.
Solo se consapevoli degli errori e delle facili infatuazioni di cui siamo stati (più o meno consapevolmente) vittime in questi anni potremo diventare finalmente decisivi.
Solo se cominciamo a dire che cambiamento non è una parola neutra.
Non è tutto buono. C’è anche quello negativo.
Dobbiamo riconoscere che il digitale spaventa molti che sentono il loro lavoro minacciato invece che facilitato. E che a quelle paure non possiamo rispondere con una alzata di spalle fighetta. Ci sono quelli che si sentono sconfitti da alcuni processi storici a cui noi possiamo contribuire a dare una risposta.
O ancora a chiederci cosa è che sinora non ha funzionato nella più generale costruzione e abilitazione di una nuova coscienza collettiva che possa smuovere il Paese. Quella coscienza collettiva che in questa stanza si percepisce vivida e vivace, per fortuna.
Per avviare questo processo io credo che dobbiamo fare almeno 3 cose, quantomeno iniziare a farle:
- Assumere consapevolezza di ciò che siamo e potremo essere;
2. Costruire legittimità sociale e politica di questo materiale intellettuale e umano, che non vuol dire fondare un partito o un movimento, ma mettersi sempre più nelle condizioni di passare dall’essere considerati quelli che pensano e propongono misure complicate e inattuabili a quelli che invece costituiscono una fonte irrinunciabile di pensiero e di metodo.
Convincere il Paese che da qui passa la costruzione del futuro. Da quelli che lo vivono passo dopo passo, essendone spesso protagonisti e costruttori, senza per questo perdere mai l’inquietudine della ricerca e del non essere paghi di quanto ottenuto.
3. Divulgare tutto quello che stiamo costruendo da anni. A tutti. Spiegare quello che rappresenta per il paese. Il valore e la visione che contiene in se. Per tutti.
Una grande opera di diffusione non di ciò che bisognerebbe fare, ma che abbiamo fatto o quanto meno stiamo provando a fare.
Per questo c’è bisogno di luoghi e di riflessioni. Di azione e costruzione. Questo è RENA, questo è il festival. Abbiamo acceso la riflessione con Renaissance e da oggi saremo al lavoro su questo.
Siamo noi e nessun altro. Altri hanno smesso di farlo. E non ce la potremo prendere con nessuno.
Crediamo di essere giunti al punto di poter esprimere posizioni. Proposte in cui metodo e merito non solo sono egualmente importanti, ma sono la stessa cosa. Noi pensiamo facendo e facciamo pensando. Impariamo dai nostri errori e da quelli dei nostri pari.
Difficilmente accettiamo lezioni ma siamo costantemente alla ricerca di maestri.
Ci sono questioni epocali che attraversano il nostro tempo che ridono in faccia al pressapochismo e all’improvvisazione che pretenderebbero di affrontarle. Noi siamo contrari all’idea che le soluzioni siano facili o che possano essere trovate dal primo onesto che passa.
Il cambiamento è complicato da far succedere. Richiede costanza, determinazione, lavoro duro, visione, conoscenza e studio. Allenamento.
Le soluzioni facili non sono né condivisibili né non condivisibili. Sono inefficaci. Non funzionano.
Oggi ci occupiamo assieme di alcune delle sfide che attendono il Paese, non perché le abbiamo scelte a tavolino o soltanto perché le riteniamo intellettualmente stimolanti. Le sfide di cui ci occuperemo in questi giorni sono la nostra vita, le nostre strade, le cose che abbiamo visto e toccato.
Una nuova idea di cittadinanza, l’Europa, le migrazioni, il futuro del lavoro e delle città, la formazione.
Dobbiamo occuparcene assieme. Non possiamo sottrarci a questa responsabilità impellente. Dirci quello che abbiamo capito fino ad ora e pure quello che non abbiamo capito.
I temi che affrontiamo oggi spaccano la storia e richiedono un pensiero nuovo.
Per questo c’è bisogno dell’aiuto di tutti.
Abbiamo cominciato a fare sul serio e non vogliamo certo smettere adesso. Temi complessi, certo. Ma sappiamo che possiamo affrontarli con la consapevolezza e la leggerezza di chi crede in un metodo fatto di competenza, condivisione, contaminazione, e non gelosia delle proprie idee.
Noi oggi proviamo solo a dare una traccia. Il testo scriviamolo assieme.
La traccia però non è libera. Se pensi che l’autarchia e la chiusura siano una soluzione non va bene. Abbiamo idee forti e condivise sulla necessità di ricostruire l’identità e la cittadinanza europea. Se pensi che i migranti vadano respinti o trattati come pacchi di merce va ancora meno bene. Lo stesso se ti limiti a dire che sì la partecipazione è importante ma tanto poi decidono tutto loro. Se pensi che ridisegnare le città si possa fare a colpi di stereotipi ed etichette abusate, come sta diventando anche la parola “periferie”, abbiamo in mente molto di più. Così come siamo in grado di immaginare il nostro Paese come una grande learning society.
Oggi stringiamo i bulloni e riempiamo il serbatoio.
Per uscire da qui pronti per andare in giro nel paese a dire che quello che le persone in questa sala stanno generando da anni il paese lo ha già cambiato, lo ha già migliorato, non ancora a sufficienza ma lo ha fatto e continua a farlo.
Che non c’è altra soluzione possibile che questa qui.
Fatta di attenzione e preoccupazione per ciò che avviene fuori da noi, di integrazione, di comunità e di imprese di un certo tipo, di contaminazione e accelerazione di diversità, sempre. Di responsabilità e visione. Di cura per il Paese e non di grida. Di capacità di affrontare la complessità con consapevolezza non con timore o ricette magiche.
Che questa è la cifra che caratterizza la nostra generazione e non invece le banalità che spesso si sentono in giro. Che la rivoluzione generazionale è soltanto all’inizio. Forse non è neppure ancora cominciata.
Noi che l’Europa ce la vogliamo prendere sulle spalle per portarla dove merita di essere, nel futuro e non nel passato.
Noi che sappiamo cosa vuol dire essere empatici nei momenti di difficoltà – la crisi ci ha attraversato la pelle e spesso continua a farlo – e che rigettiamo muri e divisioni di ogni tipo.
Noi che in tempi di referendum costituzionali stiamo celebrando, vivendola, la nostra costituzione che all’art.4 – un articolo splendido troppo spesso dimenticato – dice che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
In questa sala ci sono la cittadinanza e la partecipazione del XXI secolo. Non cerchiamo piccoli spazi di pubblicità, non siamo ostaggio delle nostre fobie, viviamo in maniera critica le nostre certezze e ci offriamo senza filtro alle contaminazioni. Non abbiamo rendite di posizione da difendere o desiderare, non ci riteniamo insostituibili, vogliamo soltanto continuare a cambiare il nostro Paese.
Benvenuti al Festival delle comunità del cambiamento, benvenuti ancora una volta a casa vostra e buon lavoro a tutti noi.
Francesco Russo